La sentenza europea sull’ex Ilva mette fine alle “deroghe” all’italiana

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di Michele Carducci

La sentenza della Corte di giustizia sull’interpretazione della Direttiva europea in materia di emissioni dei grandi impianti industriali (c.d. IED), resa nella causa italiana in tema di ripetute proroghe dell’installazione ex Ilva (Causa C-626/22), presenta due caratteri di novità, da non sottovalutare nella loro portata futura.

In primo luogo, il suo contenuto ermeneutico non produrrà conseguenze solo sul caso italiano. Trattandosi di sentenza su rinvio pregiudiziale per l’interpretazione delle fonti europee, le indicazioni fornite dalla Corte finiranno col coinvolgere d’ora in poi le sorti di ben 52.000 impianti inquinanti dell’UE (cfr. Radisson, Les installations classées IED doivent être suspendues en cas de graves dangers).

In secondo luogo, tali indicazioni produrranno effetti applicativi irreversibili su quattro fronti:

  • gli artt. 35 e 37 della Carta dei diritti fondamentali della UE (in materia di elevato livello di tutela della salute e dell’ambiente) rappresenteranno il parametro insostituibile di applicazione della Direttiva, sicché essi dovranno essere sempre interpretati congiuntamente, al fine di rendere legittime autorizzazioni e revisioni delle attività industriali;
  • in ragione di questo duplice parametro in “combinato disposto”, sussiste a livello europeo un principio in forza del quale le installazioni che mettono gravemente a rischio la salute umana dovranno essere fermate, in attesa della soluzione dei problemi;
  • sul piano del metodo, tale principio si tradurrà, sempre, comunque e ovunque, in una valutazione preventiva degli impatti dell’attività industriale sulla salute umana, proprio al fine di promuovere un’analisi integrata del rischio, conforme ai citati articoli della Carta europea dei diritti;
  • l’analisi integrata del rischio dovrà a sua volta optare per un’interpretazione estensiva e inclusiva della nozione di emissioni industriali “nocive”, non appiattita alle mere elencazioni formali, perché aperta alle acquisizioni della scienza come di altre fonti e parametrata ai contesti fattuali di riferimento.

In ossequio a queste quattro indicazioni generali, le decisioni italiane sull’ex Ilva non potranno più seguire il canovaccio di questo ultimo decennio.

Dal 2013 in poi, la politica italiana – con qualche avallo della cultura giuridica – si è nutrita di una doppia retorica apparentemente costituzionale:

  • quella della “strategicità” solo “nazionale” dell’impianto, tale da giustificarne costanti deroghe normative esclusivamente domestiche;
  • quella dell’imperituro bilanciamento tra salute e attività produttiva, in nome della formula che “nessun diritto è tiranno”, impressa, com’è noto, dalla sentenza costituzionale n. 85/2013.

Entrambe le retoriche sono state smantellate dalla sentenza di Lussemburgo. Infatti, quest’ultima, con i quattro passaggi prima sintetizzati, ha fissato un itinerario metodologico di portata generale, come tale superabile solo in nome di eventuali “controlimiti” costituzionali nazionali, capaci di legittimarne la non utilizzazione.

L’Italia, però, questi “controlimiti” non li ha mai invocati. Ha fatto tutt’altro: ha disapplicato il diritto europeo in nome non della Costituzione, ma di altro.

Da un lato, ha coniato la parola magica “interesse strategico nazionale”, sconosciuta al lessico costituzionale e semanticamente incomprensibile nella sua portata generale (anche perché, di fatto, riferita solo a Ilva), sbandierandola come legittima ratio per non considerare obbligatoria la valutazione sanitaria preventiva, nonostante non solo le sollecitazioni dei cittadini e di alcune istituzioni locali, ma soprattutto la notorietà, mai scientificamente confutata, della non tollerabilità degli effetti nocivi dell’impianto sulla salute umana. Ha perseverato su questa retorica, anche dopo che Rapporto speciale ONU, redatto per la 49a sessione su “Promozione e protezione di tutti i diritti umani, civili, politici, economici, sociali e culturali, incluso il diritto allo sviluppo”, ha classificato Taranto «zona di sacrificio» di quei diritti (quindi non solo di quello alla salute) e «macchia sulla coscienza collettiva dell’umanità» (cfr. F. Bianchi, Per le Nazioni Unite Taranto è una “zona di sacrificio” dei diritti umani).

Dall’altro, ha utilizzato la formula sui diritti non “tiranni” – frutto della citata sentenza costituzionale del 2013 – per considerare necessario, in nome del diritto al lavoro, l’aumento della produzione di acciaio, negando sfacciatamente il suo comprovato nesso eziologico con la qualità della vita dei tarantini (e non solo).

Su questi due pilastri, lo Stato italiano ha pervicacemente impostato la propria difesa davanti alla Corte di giustizia. Nessuno dei due, tuttavia, ha retto alla prova della compatibilità con gli artt. 35 e 37 della Carta europea. Nessuno dei due reggerà più. La stagione delle “deroghe” all’italiana è finita.

Come si potrà continuare a negare il diritto alla salute, quando il contesto fattuale di riferimento per l’applicazione dell’interpretazione europea è un luogo internazionalmente denunciato come «zona di sacrificio» di tutti i diritti umani e, per questo, «macchia sulla coscienza collettiva dell’umanità»? Quale valutazione sanitaria e ambientale integrata potrà ignorare siffatta caratteristica negativa?

Del resto, a mettere una pietra tombale alle “deroghe” all’italiana è stata pure la Costituzione, con i riformati artt. 9 e 41, la cui applicazione concreta, come chiarito dalla recente sentenza della Corte n. 105/2024, dovrà d’ora in poi tener conto anche dell’interesse delle generazioni future, al fine sempre di non recare danno alla salute e all’ambiente.

Per l’Italia, il contesto fattuale di riferimento dell’applicazione della Direttiva si è trasformato da contingente in intergenerazionale: una svolta immodificabile.

Pertanto, se davvero un “controlimite” costituzionale si vorrà richiamare al cospetto dell’interpretazione fornita dalla Corte di Lussemburgo, questo potrà e dovrà essere solo migliorativo e non certo “derogatorio”, integrando i quattro effetti irreversibili della decisione europea con il nuovo “mandato” (come denominato dalla Corte costituzionale) della valutazione intergenerazionale del rischio nella specifica ed eccezionale situazione di «zona di sacrificio» dei diritti umani dei tarantini.

C’è da augurarsi che il Tribunale di Milano, da cui è scaturito il procedimento pregiudiziale a Strasburgo, voglia tener conto di questo quadro fattuale intergenerazionale, nel dar seguito alle domande dei ricorrenti. Diversamente agendo, replicherebbe negligentemente un’ennesima “deroga” all’italiana, questa volta, però, non più, o non solo, del diritto europeo ma della stessa Costituzione italiana, riformata per migliorare la vita dei consociati nel presente e nel futuro, non per stigmatizzarla come “tiranna” verso le (antieuropee) “strategie” dello Stato.

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