Decreto Salva Casa e “semplificazioni” dei mutamenti di destinazione d’uso senza opere. Ma le Regioni possono reagire!

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di Giacomo Menegus

Distratto dall’allettante possibilità di allestire una verandina sul giardino o sanare il più classico tramezzo abusivo, il dibattito pubblico sul c.d. “Decreto Salva Casa” (Decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69, “Disposizioni urgenti in materia di semplificazione edilizia e urbanistica”) ha fatto passare pressoché indenne da attenzioni un altro intervento legislativo di un certo rilievo, potenzialmente foriero – se confermato in sede di conversione – di impatti non irrilevanti sulle nostre città.

Con l’aggiunta dei commi 1-bis, 1-ter, 1-quater, 1-quinquies all’art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) e l’apporto di una piccola (ma significativa) integrazione al comma 3 dello stesso articolo, il Governo ha infatti ulteriormente semplificato e liberalizzato molti profili del mutamento della destinazione d’uso delle singole unità immobiliari senza opere, ovvero il cambiamento delle finalità di utilizzo di un bene immobile senza il ricorso ad interventi di ristrutturazione edilizia (si pensi, in via esemplificativa, alla trasformazione di un appartamento residenziale in un ufficio, di un negozio in un’abitazione, di un ufficio in una struttura ricettiva e così via).

Non si tratta del primo tentativo di questo Esecutivo – e, in particolare, del Ministro Salvini – di far approvare una norma di questo tenore: già nel gennaio 2023 era stata prevista una deregulation (a dire il vero ben più drastica ed ampia) sui cambi di destinazione d’uso nella bozza di c.d. “Decreto PNRR 3” (v. qui e qui). Ma allora il dibattito suscitato sulla stampa e le critiche sollevate da più parti avevano portato a stralciare la norma dalla versione definitiva del decreto-legge. Questa volta invece l’intervento – forse per la sua portata minore – è rimasto intatto, passando quasi inosservato.

 Ma vediamo le novità (un raffronto tra testo previgente ed attuale si può leggere qui).

1. Il mutamento della destinazione d’uso della singola unità immobiliare senza opere all’interno della stessa categoria funzionale (comma 1-bis) è sempre consentito, fatte salve le normative di settore e la possibilità per i Comuni di «fissare specifiche condizioni» nei relativi «strumenti urbanistici comunali».

Vero è che già il comma 1 del previgente art. 23-ter aveva sostanzialmente liberalizzato i cambi d’uso che non comportavano il passaggio da una categoria funzionale ad un’altra; e che il comma 3 specificava che i cambi d’uso all’interno della medesima categoria era «sempre consentito». Ma si facevano salve al contempo le previsioni delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali.

Con la modifica approvata nel Decreto Salva Casa, diversamente da quanto assicurato dalla versione previgente della norma, pare invece escludersi ogni possibilità per le Regioni di disporre in senso opposto o per i Comuni di impedire tale mutamento, come avvenuto ad esempio a Firenze con la delibera “blocca B&B e locazioni turistiche” nel centro storico UNESCO.

2. Il mutamento della destinazione d’uso della singola unità immobiliare senza opere tra tutte le categorie funzionali previste dal medesimo articolo (comma 1-ter), eccetto quella rurale (ossia: residenziale; turistico-ricettiva; produttiva e direzionale; commerciale), è sempre consentito «qualora il mutamento sia finalizzato alla forma di utilizzo dell’unità immobiliare conforme a quella prevalente nelle altre unità immobiliari presenti nell’immobile» (comma 1-quater). Questa liberalizzazione opera in relazione alle singole unità immobiliari ubicate «in immobili ricompresi nelle zone A), B) e C) di cui all’articolo 2 del decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444», ossia nei centri storici, nelle zone edificate e parzialmente edificate e nelle zone di espansione dei Comuni (o ancora, nelle zone equipollenti come definite dalle leggi regionali in materia). Va precisato che per le unità immobiliari poste al primo piano fuori terra il passaggio alla destinazione residenziale è ammesso nei soli casi espressamente previsti dal piano urbanistico e dal regolamento edilizio.

A prima lettura, sembrerebbe doversi desumere che, quando orientato ad uniformare l’uso della singola unità a quello prevalente nell’immobile, il mutamento d’uso non possa più essere precluso né dalle Regioni (che sono anche qui del tutto pretermesse) né dai Comuni, posto che questi ultimi restano, anche in questa ipotesi, competenti soltanto a «fissare specifiche condizioni» nei relativi «strumenti urbanistici comunali» (fatte sempre salve le normative di settore).

Al di fuori del caso della trasformazione dei piani terra in residenziale, resiste il potere regionale e comunale di limitare mutamenti d’uso senza opere soltanto al di fuori dei casi che potremmo definire di “conformazione al prevalente”.

3. La piccola modifica al comma 3 dell’art. 23-ter va invece a restringere i poteri di Regioni e Comuni, prima ben più ampi, ai soli mutamenti di destinazione d’uso all’interno della medesima categoria funzionale di un intero immobile, lasciando invece via libera alla modifica delle singole unità immobiliari. Per spiegare la differenza, può essere utile riprendere l’esempio fiorentino: mentre sarà ancora consentito a Regione e Comune di impedire il mutamento di destinazione d’uso da residenza permanente e residenza temporanea (ad es. locazioni turistiche brevi) di un intero immobile, non sarà invece più possibile farlo con riguardo alla singola unità immobiliare.

Premesso che l’analisi che si svolge qui è “a prima lettura” e che le innovazioni introdotte andranno senz’altro valutate e ponderate con maggiore attenzione e cautela, pare comunque possibile svolgere alcune rapide considerazioni critiche.

In primo luogo, si può dire che siamo dinanzi all’ennesimo, deprecabile intervento di riforma di normative di sistema realizzato tramite decreto-legge. Si tratta certo di una cattiva prassi invalsa nel nostro Paese da tempo e da molto prima della formazione della compagine governativa attuale. Ciò non toglie tuttavia il suo profondo disvalore, considerate le potenziali incertezze che potrebbero derivare da una mancata o difforme conversione delle norme in questione, specie in danno ai traffici giuridici avviati frattanto (con il connesso seguito contenzioso e l’evitabile dispendio di risorse, anche finanziarie).

In secondo luogo, queste previsioni sono la plastica trasposizione, nella specifica disciplina dei cambi d’uso, di una visione centralistica del governo del territorio, che suscita una certa sorpresa se si considera come il Ministro Salvini, principale fautore di tale impostazione, sia al contempo segretario di un partito che ha fatto della tutela delle autonomie il proprio cavallo di battaglia. Come si è rapidamente descritto, la nuova versione dell’art. 23-ter D.P.R. n. 380/2001 sembra estromettere le Regioni da ogni intervento sui mutamenti di destinazione d’uso di singole unità senza opere, siano essi entro la medesima categoria o tra diverse categorie (se si ha conformazione all’uso prevalente). E riduce pure i margini di intervento dei Comuni in rapporto a tali mutamenti, potendo questi (così pare) solo dettare delle condizioni per il cambio d’uso.

In questo modo, tuttavia, non soltanto la novella va a violare la competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio (art. 117, comma 3 Cost.), scendendo a disciplinare il dettaglio di taluni mutamenti d’uso senza lasciare alcun margine di manovra al legislatore regionale; ma sembrerebbe pure incidere – in misura sproporzionata – sul nucleo intangibile dell’autonomia comunale che riguarda l’attività pianificatoria urbanistica (si v., tra le altre, Corte cost. nn. 202/2021, 119/2020, 179/2019). A tal proposito, si tenga presente che, ai sensi del comma 1-quater, il genere di mutamenti considerati dalla norma «non è [neppure] assoggettato all’obbligo di reperimento di ulteriori aree per servizi di interesse generale previsto dal decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 e dalle disposizioni di legge regionale, né al vincolo della dotazione minima obbligatoria dei parcheggi previsto dalla legge 17 agosto 1942, n. 1150».

Naturalmente l’effettiva ampiezza delle liberalizzazioni descritte e la correlata compressione dei poteri conformativi delle autonomie dipenderanno in larga misura dall’interpretazione che sarà data al nuovo testo, il quale presenta qualche margine di ambiguità (peraltro già presente nella previgente versione). Il riferimento alle leggi di settore e alle specifiche condizioni dettate dagli strumenti urbanistici comunali potrebbero infatti rimettere in gioco sia le Regioni sia i Comuni, lasciando pressoché immutato il quadro normativo. L’intentio legis è tuttavia chiaramente orientata alla semplificazione e la finalità dell’innovazione recata dalle modifiche sembrerebbe essere proprio essere quella di escludere i “lacci e lacciuoli” stretti dalle autonomie attorno ai mutamenti di destinazione d’uso considerati.

Se così fosse, anche considerato che il decreto-legge (ivi comprese le disposizioni esaminate) entra in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (avvenuta il 30 maggio 2024), c’è più di un motivo preoccupazione.

Quanti mutamenti d’uso potranno essere avviati nei sessanta giorni di vigenza del decreto, in attesa della sua conversione? Quante incertezze potranno generarsi nella gestione amministrativa delle relative pratiche? Basti pensare che, ai sensi del comma 1-quinquies, per procedere con i mutamenti di destinazione d’uso descritti è sufficiente una «segnalazione certificata di inizio attività di cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, ferme restando le leggi regionali più favorevoli». Quali potrebbero poi essere le conseguenze di una mancata o difforme conversione delle disposizioni considerate?

Ci si trova dinanzi, con buona probabilità, ad uno di quei rari casi in cui ricorrono i presupposti per la sospensione di una disposizione di legge o atto avente forza di legge ai sensi dell’art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87, introdotta con la legge 5 giugno 2003, n. 131 (c.d. legge La Loggia). L’articolo recita: «Qualora la Corte ritenga che l’esecuzione dell’atto impugnato o di parti di esso possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini (…) d’ufficio può adottare i provvedimenti di cui all’art. 40», ossia la sospensione di tutto o parte dell’atto.

È assai verosimile, infatti, che da una (pur provvisoria, ma immediata) applicazione delle disposizioni in questione – specie laddove queste venissero successivamente dichiarate incostituzionali (o non fossero nel frattempo convertite) – possa derivare un danno non compiutamente riparabile ex post all’interesse pubblico connesso all’ordinato governo del territorio, al buon andamento della pubblica amministrazione e, più in generale, alla certezza del diritto.

Una tempestiva sospensione dell’efficacia delle disposizioni di dubbia legittimità – sebbene assai problematica in un’ottica di equilibrio tra poteri, data la collocazione delle stesse in un decreto-legge – assicurerebbe la pienezza degli effetti della successiva ed eventuale pronuncia di illegittimità della Corte, scongiurando l’insorgere di gravi complicazioni e incertezze.

In questo caso, peraltro, le Regioni potrebbero sollecitare la sospensione delle disposizioni in questione nel giudizio principale, agendo non solo per tutelare la propria posizione costituzionalmente garantita, ma pure quella degli enti locali penalizzati nella propria sfera di autonomia, come ritenuto ammissibile dalla giurisprudenza costituzionale in presenza di una “stretta connessione” tra compiti regionali e locali (riscontrabile, secondo la Corte, proprio in relazione alla materia urbanistica; si v. in part. Corte cost. n. 196/2004).

Potrebbe così essere l’occasione opportuna per una messa in opera, anche sul fronte regionale, di uno strumento processuale – quello della sospensiva – che finora non ha avuto grande impiego, e ha visto la sua unica, storica applicazione in danno della Regione Valle d’Aosta durante l’emergenza pandemica (Corte cost. n. 4/2021).

L'immagine è tratta da La legge per tutti del 13 aprile 2023
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