Le questioni principali, nel sistema di asilo dell’Unione Europea, a parte il regime dei termini e delle decadenze, riguardano il potere di rilevabilità d’ufficio delle situazioni di anticomunitarietà e di illegittimità costituzionale e la valutazione, gioco forza sommaria, della prova in una procedura “accelerata”.
1. Le autorità amministrative e i giudici devono scegliere se dare prevalenza ex ante alla nozione classificatoria di Paese di origine sicura, in sostanza a una presunzione, o se far prevalere una nozione del diritto di asilo fondata sulla valutazione ex post di concrete e specifiche situazioni di fatto, indipendentemente dalla posizione nella classifica dei Paesi “sicuri”.
La procedura “accelerata” in frontiera disciplinata dal d.l. 20/2023 drammatizza l’antitesi tra i due estremi (rinvio a Martina Flamini, La protezione dei cittadini stranieri provenienti da cd. “Paesi sicuri” in seguito alle modifiche introdotte dal dl n.20 del 2023, in Questione Giustizia 3/2023, 101).
Se la privazione della libertà personale deve essere sempre l’extrema ratio, non è legittimo alcun automatismo del trattenimento, in contrasto con l’interpretazione restrittiva che esige l’art. 13 della Costituzione.
Il nodo è quello delle garanzie che presidiano il diritto dei richiedenti protezione, anche se provenienti da “Paesi sicuri” “alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale del paese di origine dei richiedenti asilo” e dei Paesi di transito (art.8, III comma, D.lgs.25/2008). Tali informazioni nella prassi chiamate COI (country of origin information) sono agevolmente a disposizione delle commissioni territoriali e dell’Autorità giudiziaria e si avvalgono di fonti sovranazionali, governative, di banche dati legislative e giurisprudenziali, di fonti non-governative, di media e di agenzie di stampa e altri siti di interesse.
Non regge all’esame finalizzato alla convalida un provvedimento amministrativo restrittivo della libertà personale, anche se è disposto soltanto per il tempo istruttorio di esame della domanda, ma in assenza di elementi neppure indiziari che potrebbero far presumere che la libertà del richiedente la protezione rappresenti un pericolo (art. 26 Dir. Procedure 2013/32/UE e art. 8 Dir. Accoglienza 2013/33/UE).
2 – L’alternativa è tra una decisione inter partes immediatamente efficace e la sospensione del giudizio in attesa della pronuncia con efficacia erga omnes della Corte costituzionale. Il Governo sostiene che i giudici hanno violato il confine, superato il quale si entra nella valutazione politica che non spetta all’Autorità giudiziaria. Non sono d’accordo.
Secondo il Governo se i giudici avessero ritenuto che i giudizi di convalida non avrebbero potuto essere definiti senza fare ricorso all’art. 23, II co. l.87/1953, avrebbero dovuto sollevare d’ufficio le questioni di legittimità costituzionale, trasmettere gli atti alla Corte costituzionale e sospendere il giudizio.
La proposizione di una questione di legittimità costituzionale, in via incidentale, nell’ambito di una procedura in Camera di Consiglio, come quella ex art 737 c.p.c., pone tuttavia alcuni problemi.
Se i Tribunali avessero disposto il rinvio alla Corte costituzionale, senza decidere sulla convalida, sarebbero stati sospesi i giudizi, ma non il D.M.17/03/2023 e i provvedimenti di diniego della protezione internazionale su quello fondati e in attesa della pronuncia della Corte sarebbe stata sacrificata la tutela invocata con le domande di protezione internazionale.
Esaurendo, nei limiti assegnati dalla legge al giudice ordinario, i propri poteri decisori, i Tribunali hanno optato per la tutela prioritaria del diritto dei richiedenti asilo, scegliendo la via della disapplicazione efficace soltanto inter partes, ma che se reggerà alle impugnazioni governative spiegherà effetti oltre i singoli provvedimenti, nella misura in cui potranno essere risolte le difficoltà interpretative di una questione suscettibile di porsi anche in altri numerosi giudizi, secondo i requisiti e con gli effetti previsti dall’art.363 bis c.p.c.
3. L’imparzialità e il buon andamento prescritti dall’art. 97 della Costituzione sono sempre messi alla prova da situazioni che possono influenzare i funzionari preposti all’esame delle domande.
La postura mentale, l’ideologia politica, la pressione governativa, lo scetticismo nella valutazione delle prove e delle dichiarazioni del richiedente la protezione, possono oggettivamente orientare chi è chiamato ad applicare o no una misura coercitiva come il trattenimento, con conseguente respingimento.
Se nella fase amministrativa le garanzie non sono rispettate si impone il recupero, dal punto di vista istruttorio e dell’interpretazione applicativa, nella fase giurisdizionale. Si pone quindi il problema della valutazione della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del beneficio del dubbio nei sistemi di protezione internazionale.
Trattiamo di soggetti con alle spalle biografie individuali e collettive complesse, spesso drammatiche, che non si esauriscono nella classifica provvisoria, e di convenienza politica, del Paese di origine tra quelli sicuri. Non basta l’assenza di situazioni di guerra o rischi di tortura, persecuzioni o maltrattamenti, ma devono esserci tutte le garanzie di accesso ai rimedi effettivi di uno Stato di diritto, la possibilità di accesso effettivo alla giustizia e l’assenza di violazioni sistemiche di diritti e garanzie fondamentali.
L’art. 4 della Direttiva UE sulle qualifiche (Direttiva 2011/95/UE) dice che “lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda”. Quindi tutte le autorità amministrative e giudiziarie devono garantire al richiedente informazioni e orientamento e la possibilità di fornire a sua volta spiegazioni in presenza di elementi dubitativi.
Non vi sono metodi infallibili per accertare la veridicità delle affermazioni del richiedente. Nella materia vi sono i cosiddetti “indicatori di credibilità” elaborati nel rapporto “Beyond Proof Credibility Assessment in EU Asylum System” (reperibile in http://www.unhcr.org/51a8a08a9.html).
E’ un contesto in cui entrano in campo molti elementi che esigono una valutazione caso per caso, incompatibile con la c.d. “procedura accelerata”.
La valutazione della credibilità (plausibilità, verosimiglianza, ragionevolezza, probabilità, senso comune, comportamento del richiedente) non impone che i fatti debbano essere necessariamente provati “al di là di ogni ragionevole dubbio”. L’art. 4 della Direttiva qualifiche 2011/95/UE stabilisce non per caso la “cooperazione” della p.a. con il richiedente. Entrano in gioco approcci fondati sia sulle tradizioni giuridiche nazionali in tema di valutazione delle prove, sia sulle regole e i principi del diritto internazionale.
Le autorità amministrative non danno una motivazione sufficiente, si limitano a formule stereotipate; il che già di per sé integra un vizio di legittimità dei provvedimenti, cui il giudice della convalida deve porre rimedio.
Il rapporto “Beyond Proof Credibility Assessment in EU Asylum System” citato ci dice, in pratica, quello che tutti gli avvocati e tutti i giudici sanno: cioè che il beneficio del dubbio riflette le difficoltà, tanto più considerevoli date le condizioni dei richiedenti protezione internazionale, per ottenere o fornire prove e che occorre grande attenzione, a partire dalla fase amministrativa, alle gravi conseguenze derivanti da un diniego errato di protezione internazionale.
La fase giurisdizionale assume quindi particolare importanza di fronte a una situazione dubitativa sul fatto e contemporaneamente a un dubbio sulla costituzionalità della norma. Il giudice della convalida, fermi i presupposti di non manifesta infondatezza e di rilevanza della questione, si troverà sempre nella condizione di dover decidere se sollevare l’incidente di costituzionalità, sospendendo il processo ma non il provvedimento amministrativo di diniego, oppure assumere una postura garantista, ricorrendo all’istituto della disapplicazione e salvaguardare provvisoriamente il diritto del richiedente.
3. Le Amministrazioni dello Stato e i Ministri che ne sono responsabili ai sensi dell’art.95 della Costituzione non dovrebbero essere contrariati, quando un giudice tenta di ricondurre la loro azione a correttezza costituzionale dalla quale potrebbero essersi allontanati.
A tal fine, forse, è utile una breve considerazione sul ruolo dell’Avvocatura dello Stato che svolge, al massimo livello, una funzione di equilibrio insita nel ruolo di intermediazione processuale. La legge assicura piena autonomia e indipendenza all’Avvocatura dello Stato rispetto alle Amministrazioni che fruiscono della sua attività. E questo perché essa non è relegata alla funzione meramente consultiva antecedente al 1876, ma è posta a presidio dei valori giuridici dell’ordinamento statuale nella sua unitarietà, che oggi sono quelli sanciti dalla Costituzione.
La dipendenza dell’Avvocatura dello Stato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri proprio per questa ragione è una forma di gerarchia c.d. “esterna”, nel senso che il Governo non può e non deve interferire sull’autonomia dell’Avvocatura per quanto concerne la valutazione non politica, ma giuridica oggettiva dell’interesse protetto e rilevante dello Stato (il bene della vita uguale e contrario a quello fatto valere dai singoli persone fisiche o giuridiche) ad agire o a resistere in giudizio, a promuovere o ad abbandonare giudizi.
L’art. 12 l. 3 aprile 1979 n.103 recante “Modifiche dell’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato” ha sentito l’esigenza di stabilire espressamente che “Le divergenze che insorgono tra il competente ufficio dell’Avvocatura dello Stato e le amministrazioni interessate circa la instaurazione di un giudizio o la resistenza nel medesimo (l’interesse di cui all’endiadi dell’art.100 c.p.c.) sono risolte dal Ministro competente con determinazione non delegabile”.
Si è inteso ribadire l’ovvio e cioè che il “Ministero che litiga” non è l’Avvocatura, perché la disponibilità della situazione soggettiva che forma l’oggetto di una controversia appartiene alle amministrazioni. Ma con ciò non è sancito l’obbligo di sottomissione alle mutanti variabili della politica, men che meno quando sono in gioco principi costituzionali, perché si tradirebbe il senso dello stesso istituto del mandato ex lege inventato nel 1876 da Marco Minghetti e Giuseppe Mantellini, vero e proprio atto di nascita dell’Avvocatura.
Nelle materie caratterizzate da forti implicazioni ideologiche e politiche, vi è sempre il rischio che politica e tutela di diritti soggettivi si affrontino con il massimo di tensione, aprendo a inconciliabili prospettive interpretative del complesso normativo, già dalla fase amministrativa.
Nel caso di persone provenienti da Paesi definiti “sicuri” sulla base di standard soggetti a revisione, l’Avvocatura dello Stato, proprio a tutela dei valori dell’ordinamento, affermando la propria autonomia e indipendenza, non dovrebbe esimersi, una volta che la questione si è riversata nella fase giurisdizionale, dal valutare oggettivamente se il diritto alla protezione internazionale ha subito dalla legge limitazioni tali da far dubitare del rispetto dei principi sovranazionali e costituzionali, come interpretati dalle Corti.
Non è improprio che un giudice si chieda se la norma applicata dall’autorità amministrativa abbia di mira un risultato soltanto politico, e se tale risultato corrisponda alle condizioni di garanzia delle libertà individuali.
Nelle controversie in cui sono in gioco i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione e dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dai suoi protocolli, o in altri ambiti del diritto internazionale e comunitario, è dovuto uno speciale riguardo al concreto bene della vita in gioco, di fronte al quale pregiudiziali ideologiche o interessi politici tout court sono recessivi.
L’autonomia e l’indipendenza dell’Avvocatura dello Stato sono preziose perché ostano a che essa sia più attenta agli interessi della gerarchia politica che ai diritti soggettivi fondamentali costituzionalmente e convenzionalmente garantiti.
E’ convincimento di chi scrive che l’Avvocatura non si presta ai tentativi di un uso politico della sua funzione. Forzare l’Avvocatura a piegarsi alle contingenti esigenze politiche del Governo, o della politica tout court, che vorrebbero trasformarla in un corpo di obbedienti burocrati in toga sarebbe un grave errore perché indebolirebbe il ruolo di uno dei più prestigiosi organi dello Stato.
Per uno sguardo completo anche storico, sul ruolo dell’Avvocatura dello Stato rinvio alla preziosa voce di Emilio Zecca, (Rappresentanza e difesa in giudizio della pubblica amministrazione in Enciclopedia del diritto, Milano Giuffré, 1989, 522 ss.).
Tuttavia, anche in casi con forte implicazione politica, nell’Avvocatura dello Stato è sempre forte la tendenza, forse effetto antico di una visione conservatrice del proprio ruolo, a ergersi a organo preposto a difesa della legge, anche quando sospettata di incostituzionalità.
Gli effetti negativi generali di questa tendenza vennero criticati da Alessandro Pizzorusso nel 1981(Commento all’art. 137, in Commentario alla Costituzione a cura di Giuseppe Branca, 1981, 278 ss.) allorché ebbe a scrivere sul ruolo del Governo quando si oppone all’eventualità che una legge sia dichiarata costituzionalmente illegittima.
“Salvo rare eccezioni, infatti, l’Avvocatura dello Stato si è schierata sempre a favore della legge impugnata, anche quando il Governo (o i partiti che lo sostenevano) avevano dichiarato di considerare superate, tanto da avanzare o accettare proposte di modificazione legislativa di esse. Non è dato sapere se ciò sia dovuto ad un male inteso rispetto dell’organo politico per l’autonomia “tecnica” dell’Avvocatura, oppure a qualche altra sia pur discutibile motivazione.
“Del pari, difficilmente spiegabile appare lo zelo – veramente degno di miglior causa – che l’Avvocatura costantemente pone nell’avanzare eccezioni di inammissibilità delle questioni di costituzionalità, quasi che sussistesse un interesse pubblico ad evitare comunque ed in ogni caso che tali questioni vengano esaminate nel merito dalla Corte costituzionale: e poiché certamente l’interesse pubblico è invece nel senso opposto, dato che le decisioni di inammissibilità comportano uno spreco di energie e inutili ritardi nella decisione di processi sui quali le questioni di incostituzionalità influiscono non resta altro che supporre che tale zelo sia frutto della volontà dei singoli avvocati erariali di ben figurare professionalmente, anche a costo di provocare decisioni di inammissibilità che dal punto di vista sociale rappresentano per di più una pura perdita.”
5. La notizia è già dimenticata di fronte a quelle terrificanti provenienti dai fronti di guerra sulle quali si fatica a pensare e tanto più a scrivere, salvo per i partecipanti all’osceno caravanserraglio televisivo. Ma per qualche giorno è stata alla ribalta del varietà.
Il sarcasmo sulle difficoltà logistiche, sui rischi di inefficienza, sui tempi e sui costi di organizzazione del sistema con cui è stata accolto l’annuncio dell’accordo con l’Albania, sono lontani dal centro della questione politica.
Si è sottovalutato che si è varcato il confine, al di là del quale diritti come quello all’esame imparziale delle domande, all’accesso effettivo e senza ostacoli alla giustizia, il diritto di difesa (art.24 Cost.) non sono più garantiti con danno grave per lo Stato di diritto e soprattutto per le persone.
Non si vuole vedere la sostanza ideologica, politica e culturale, che l’”accordo” esprime. Nessuno si interroga sull’ideologia che è al fondo della scelta di trasferire in massa le persone in enclaves nel territorio di un altro Stato.
La dimensione del fenomeno migratorio – ben diversa dai tempi in cui si cominciò a interrogarsi se il c.d. asilo collettivo o di massa potesse trovare riconoscimento nell’art. 10 della Costituzione – è sicuramente un problema tanto più drammatico, quanto sono più deboli, dal punto di vista demografico e oggi anche economico, le società europee, meta delle nuove migrazioni.
Il fatto è che l’accordo dimostra che l’ideologia della separazione, questo camouflage della paura e dell’odio che produce soltanto danni, è ancora parte della morale pubblica. E il danno sociale è destinato prima o poi a esplodere, quando la politica approfitta della paura, o la suscita, utilizza il risentimento del ceto medio proletarizzato, fa leva sul bisogno di lavoro soltanto per italiani ed assimilati, fa uso manipolativo della paura dell’”invasione” migratoria e della “contaminazione” culturale, abusa delle norme penali e ne inventa di nuove per esprimere concetti che prendono il posto delle persone.
L’idea reazionaria di fondo, è sempre la stessa: le vite degli altri non valgono le nostre e le libertà degli altri sono diverse dalle nostre.