Confermando quanto già deciso dalla Corte di Giustizia U.E. nella ormai nota sentenza Promoimpresa del 2016, due recenti pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (nn. 17 e 18/2021) hanno rilevato il contrasto tra il diritto nazionale e quello europeo in materia di concessioni balneari (si vedano le osservazioni di Angela Cossiri).
La concessione del lido, praticata – come è in Italia – senza ricorrere a gare pubbliche, integra una disparità di trattamento nei confronti di imprese, anche straniere, potenzialmente interessate a gestire il bene. Ne consegue che la disciplina nazionale in materia vìola il diritto dell’Unione, specialmente la libertà di stabilimento (art. 49 TFUE), le regole della concorrenza e dell’evidenza pubblica (in particolare, l’art. 12 Dir. 2006/123/CE, cd. Bolkestein).
In omaggio al principio di supremazia del diritto comunitario, quindi, le norme italiane che confliggono con quelle U.E. non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione. Conseguentemente, non può trovare applicazione nemmeno la recente legislazione (art.182, comma 2, del d.l. n. 34/20 e art. 1, comma 682 e seg.l. 145/18) con cui le concessioni demaniali già in esecuzione erano state prorogate ex lege. In tal modo, si era cercato di approntare una soluzione politica temporanea che rinviava a una sistemica riforma futura in materia, cercando intanto di tenere conto del contenzioso insorto tra gli attuali concessionari, i quali invocano un affidamento nella durata stabile della concessione già in essere, e i soggetti interessati alla messa a gara pubblica dei lidi, secondo le regole del diritto europeo.
Tuttavia, le due pronunce richiamate hanno escluso definitivamente ogni valore giuridico per il cd. diritto d’insistenza, cioè il diritto degli attuali concessionari alla prosecuzione del rapporto con l’amministrazione, e hanno sterilizzato gli effetti della norma volta a procrastinare il momento dell’adeguamento della disciplina nazionale a quella europea. Da più parti si è, quindi, levato un forte entusiasmo intorno alle citate sentenze gemelle, intese come risolutive del problema concernente le concessioni balneari in Italia. Tale entusiasmo, però, a meglio guardare, non merita di essere condiviso sic et simpliciter.
La riflessione in merito alla gestione dei lidi, infatti, non può ridursi a valutare se applicare o meno la regola della concorrenza, ponendo sul mercato gli affidamenti. Piuttosto, è necessario spingersi a considerare la natura giuridica del bene.
Preferibilmente, il lido del mare andrebbe ricondotto alla categoria dei beni collettivi, rectius: dei beni comuni. La fruizione libera dei lidi, invero, soddisfa diritti costituzionali primari, consente il libero sviluppo di sé e dunque ne permette la classificazione tra i commons.
Sulla base della tradizionale definizione offerta dalla cd. Commissione Rodotà, istituita nel 2007 presso il Ministero della Giustizia per la riforma del Codice civile in materia di beni pubblici, i beni comuni sono proprio le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona. Essi sono tutelati e salvaguardati dall’ordinamento anche a beneficio delle generazioni future e possono esserne titolari sia persone giuridiche pubbliche che privati, ma in ogni caso deve esserne garantita la fruizione collettiva.
Vieppiù, sempre in base alla proposta regolazione, allorché la titolarità è pubblica, come per il demanio (cui oggi appartiene il lido), la gestione è svolta da soggetti pubblici e i beni sono collocati fuori commercio, con possibilità di assoggettarli a concessione, secondo legge, per una durata limitata e senza proroghe.
Come evidente, l’astratta riconduzione del lido del mare tra i beni comuni ne consentirebbe l’avulsione dal mercato e dalle regole concorrenziali, recuperandone la gestione alla mano pubblica.
Ma anche a volersi discostare dalla categoria dei beni comuni, purtroppo mai regolata, residua uno spazio per ritenere comunque non applicabile la disciplina della concorrenza alle concessioni balneari con finalità turistico-ricreativa e assicurare il bene dalle logiche di mercato.
Nelle parole della Plenaria, la gestione dei lidi è materia riconducibile allo spazio applicativo della Bolkestein. Questa, come noto, è una direttiva dell’Unione Europea che concerne servizi d’interesse economico generale e che detta regole di mercato per tutto ciò a cui si applica. Quindi, laddove la Corte qualifica il lido come bene economicamente rilevante, ve ne impone l’applicazione, tradendo a tutti gli effetti la sua vera natura, volta piuttosto a sfuggire alle regole economiche e a garantirne un accesso inclusivo in termini assoluti, oltre a una tutela intrinseca, pubblica ed effettiva.
Detta impostazione interpretativa, ancorché non condivisibile, è diffusa in giurisprudenza, ma ricorrendo ad una scissione giuridica tra suolo e servizi sopra-suolo è possibile individuare una chiave di lettura utile a risolvere in modo innovativo l’annosa questione delle concessioni balneari, valorizzando la natura giuridica del bene.
Il suggerimento di distinguere tra servizi offerti sul lido e il bene in sé e per sé, consentirebbe – ove accolto – la miglior tutela degli interessi e dei beni coinvolti. Sarebbe possibile, in tal modo, garantire le attività commerciali e i servizi alla persona, pur mantenendo uno status integralmente pubblicistico del lido del mare, con l’effetto di preservarne la gestione dalle speculazioni connotative dell’esercizio privato della sua amministrazione. Altrettanto, verrebbe meno l’attuale diritto di esclusiva allo sfruttamento economico di una risorsa naturale contingentata e, conseguentemente, l’odierna capacità d’uso speciale del demanio marittimo, offerta ai soli concessionari, recederebbe a vantaggio della fruizione generale, dunque per tutti, del lido.
Secondo la soluzione prospettata, per i servizi sopra suolo, a sicuro interesse economico, potrebbero applicarsi le regole dettate dalla Bolkestein, indicendo gare pubbliche secondo i criteri della concorrenza e della trasparenza, in modo da offrire gli stessi conforti già oggi presenti nelle spiagge (cibo e bevande, ombrelloni, attività ludiche). Mentre il lido, permanendo alla mano pubblica, potrebbe consentire una sperimentazione virtuosa in punto di gestione, da praticare sull’intero territorio nazionale.
Per la gestione del suolo, è evidente che si dovrebbe pensare ad un discarico dagli oneri per l’Amministrazione centrale, che pur ne rimane titolare. Perciò, si potrebbe ricorrere all’assegnazione del bene mediante criteri di sussidiarietà, verticale e orizzontale (ex art.118, commi 1 e 4), con un sistema regolatorio articolato su più livelli.
Potrebbero favorirsi forme di gestione diretta da parte dei cittadini e di controllo immediato degli Enti di prossimità, immaginando un affidamento operato per patti pubblico-privati, garantendo l’efficienza nella cura del bene, oltre a un adeguato controllo a fini di protezione e garanzia.
In tale schema, i Comuni recuperano un ruolo primario nella cura dell’interesse pubblico, in attuazione dell’art.118, comma 1, Cost., che vuole le funzioni amministrative assegnate loro in prima battuta, salvo che non ricorrano i presupposti per la devoluzione delle attività alle Istituzioni superiori. Al contempo, agevolando i processi di partecipazione attiva della cittadinanza nello svolgimento di attività d’interesse generale, si dà attuazione al diverso art.118, comma 4, Cost. e diviene possibile tutelare la relazione tra soggetto e oggetto, cioè del vincolo identitario tra luoghi e persone.
Si tratterebbe, ovviamente, di articolare un’attenta disciplina, che si dia carico dei criteri di selezione delle proposte provenienti dalla cittadinanza e, ove ne manchino di spontanee, si dovrebbero approntare sistemi accattivanti, d’incentivo alla partecipazione attiva nella cura del territorio (ad esempio immaginando forme di compensazione, sgravi su tributi o imposte, secondo fortunati modelli già in auge in altri Paesi o in rari contesti locali, interni). In ogni caso, andrebbero immaginati sistemi sostitutivi di gestione, allorché non si reperiscano interessati nella cittadinanza di prossimità al bene. Quindi, in conclusione, per approntare una disciplina efficiente in materia di lidi e concessioni balneari nei termini predetti, occorrerebbe una consistente opera di razionalizzazione normativa, coinvolgente aspetti civilistici e di diritto amministrativo puro, ma i molteplici benefici descritti giustificherebbero l’accollo da parte del legislatore di una riforma tanto imponente.
Condivido in pieno l’impostazione qui offerta del problema, che è stato sempre affrontato in modo grottesco dal nostro legislatore che, sulla spinta un po’ cieca dei c.d. stakeholders, ha proceduto di proroga in proroga, ben sapendo di essere così in rotta di collisione con le istituzioni UE. Non mi sembra abbia molto senso confondere la necessaria unità della categoria giuridica dei beni cui il demanio marittimo appartiene con la disciplina della gestione degli spazi, che ovviamente mi sembra vada necessariamente differenziata da caso a caso: una cosa è la spiaggia antistante al ristorantino nella baia del paese (la natura di bene comune di essa è qui evidente), un’altra le distese chilometriche di Rimini o di Forte dei Marmi, che sono risorse economiche di elevatissimo valore e non particolarmente legate al luogo e ai suoi abitanti. Occorrerebbe una legge quadro, applicare il principio del cd “federalismo demaniale”, fissare ai Comuni una procedura di valutazione e classificazione dei beni de quo, ecc.