L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata il 9 novembre sull’annosa questione delle concessioni marittime e lacuali rilasciate dalla p.a. per esercitare attività turistica o ricreativa in aree demaniali. Nulla di nuovo o inaspettato dal Consiglio di Stato, che si allinea alla posizione della Corte di giustizia (sent. Promoimpresa, 2016), applicando uno schema ben consolidato nel rapporto tra ordinamenti. Il rilascio delle concessioni a soggetti che esercitano in via esclusiva su aree costiere attività di impresa deve avvenire all’esito di una selezione pubblica trasparente, nel rispetto della libertà di stabilimento e del divieto di barriere all’ingresso nel mercato di potenziali concorrenti (artt. 49 TFUE e 12 della direttiva “Servizi” – cd. Bolkestein). Il diritto Ue è riconosciuto dal giudice come auto-applicativo; deriva da ciò il dovere di non applicazione da parte della p.a. della legislazione interna incompatibile e la perdita automatica di efficacia delle concessioni attualmente in essere, frutto di proroghe o di giudicato favorevole.
I pochi elementi innovativi di interpretazione che il giudice aggiunge ad un quadro ben noto riguardano: a) il riconoscimento dell’interesse transfrontaliero certo, valutato – a differenza di quanto fece a suo tempo la Corte di giustizia Ue – sull’intero patrimonio costiero italiano; e b) la scarsità della risorsa naturale – valutata in via generale e su dati meramente quantitativi. Si tratta dei due presupposti richiesti per rientrare nell’ambito di applicazione rispettivamente della prima e della seconda disposizione di diritto europeo citate. Questi profili sembrano essere i soli aspetti dell’argomentazione meritevoli di più meditate riflessioni, alla luce dell’efficacia meramente nomofilattica dell’intervento giurisprudenziale.
Gli effetti temporali della pronuncia caducatoria delle concessioni in essere sono opportunamente posticipati a fine 2023: un periodo transitorio è opportuno per dare un tempo di adattamento ad settore economico nevralgico per l’economia nazionale, che dovrà adeguarsi ad un cambiamento definitivo sempre osteggiato dalle associazioni di categoria; alle p.a., che dovranno bandire le selezioni pubbliche; ed eventualmente al legislatore, che potrebbe intervenire con una riforma complessiva del settore.
Il Consiglio di Stato tende tuttavia a ricostruire il quadro normativo di riferimento e la sua interpretazione, in modo tale che le p.a., dopo un lungo periodo di caotica incertezza, potrebbero indire le selezioni, anche in assenza di ulteriori interventi legislativi, sulla base dei principi ispiratori emergenti dagli ordinamenti europeo e interno. Solo in questi termini (e non come una interferenza rispetto alla discrezionalità legislativa) dovrebbe essere intesa la parte conclusiva della motivazione, in cui il giudice elenca una serie di principi ispiratori per lo svolgimento. Si tratta di aspetti rimasti sottotraccia nel dibattito pubblico e nelle controversie, che possono guidare il bilanciamento tra i diversi interessi fondamentali implicati. Secondo il Consiglio di Stato, sono deducibili dal diritto Ue principi di imparzialità, trasparenza, pubblicità; secondo l’art. 12 par. 3 della direttiva “servizi”, è possibile valorizzare in sede di gara considerazioni di salute pubblica, obiettivi di politica sociale, salute e sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, protezione dell’ambiente, salvaguardia del patrimonio culturale e “altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario”, nozione quest’ultima di elaborazione giurisprudenziale, in cui può confluire la tutela di diversi interessi.
Con specifico riferimento al legittimo affidamento dei titolari uscenti, funzionale ad ammortizzare eventuali investimenti effettuati, la Corte di giustizia ha ammesso una valutazione caso per caso: ove il titolare uscente possa dimostrare di aver effettuato investimenti, aspettandosi legittimamente il rinnovo della propria autorizzazione, i bandi di gara potranno riconoscere un indennizzo. Il principio di rotazione, previsto nel settore dei contratti pubblici, non è imposto nel settore dei servizi; anzi, fermo restando che andrebbero «evitate ipotesi di preferenza “automatica” per i gestori uscenti, in quanto idonei a tradursi in un’asimmetria a favore dei soggetti che già operano sul mercato», i criteri di selezione dovrebbero riguardare la capacità tecnica, professionale, finanziaria ed economica degli operatori. Nell’ambito della capacità tecnica e professionale si potrà valorizzare l’esperienza professionale e il know-how acquisito da chi ha già svolto attività di gestione di beni analoghi (e, quindi, anche del concessionario uscente, a parità di condizioni con gli altri), tenendo conto della capacità di interazione del progetto con il complessivo sistema turistico-ricettivo del territorio locale. Ulteriori elementi di valutazione dell’offerta potranno riguardare «gli standard qualitativi dei servizi, la sostenibilità sociale e ambientale del piano degli investimenti, in relazione alla tipologia della concessione da gestire».
Rischi non mancano, certo; ma, una volta riconsegnato il settore alla certezza giuridica, sembrerebbe questa anche una bella sfida lanciata all’imprenditoria italiana, che potrebbe e dovrebbe sin d’ora attivare le sue capacità di progettazione creativa e la sua attitudine all’innovazione, nell’ottica della migliore valorizzazione sostenibile del patrimonio costiero locale.
È ovvio, peraltro, che la strada maestra sembra sempre quella di un intervento legislativo di riforma, che, evitando di assolutizzare mercato e concorrenza, sappia bilanciare i molti confliggenti interessi pubblici implicati, inclusi quelli sociali delle comunità locali, i cui sistemi socio-economici sono strettamente collegati alla filiera del turismo balneare. Una delle soluzioni più interessanti, del tutto estranea dall’ambito di applicazione del diritto Ue, sembrerebbe quella del recupero della categoria dei beni collettivi e dell’attivazione diretta delle amministrazioni locali o delle comunità civiche.