Ddl Zan: proviamo a fare chiarezza

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di Salvatore Curreri

Il disegno di legge “Zan” è inutile, repressivo e ambiguo, come sostengono i suoi critici? Oppure intervenire in materia è opportuno, come autorevolmente affermato dal Presidente della Corte costituzionale Coraggio (nomen omen)? Per rispondere a questa domanda occorre approfondire il tema sotto un profilo strettamente giuridico. Operazione non facile e magari noiosa per il rischio di cadere in sottigliezze ai più incomprensibili. Eppure analizzare il testo della proposta, concentrarsi sui suoi singoli termini – che nel diritto non sono mai spesi a caso anche in forza del significato che loro deriva da consolidate tradizioni interpretative giurisprudenziali – mi sembra l’unico modo per fare ordine su un disegno di legge certo migliorabile ma che sicuramente non merita le accuse, inesatte e semplificatorie, veicolate in modo facile e strumentale da una certa propaganda politica. Ci provo.

  1. Si dice: il ddl Zan è inutile perché le disposizioni per punire comportamenti violenti o discriminatori già esistono (v. ad esempio quanto dichiarato da Massimo Gandolfini, Presidente dell’Associazione Family day sul Corriere della Sera di oggi della Sera, p. 10). Vero, perché è ovvio che pestare a sangue una coppia di omosessuali, come avvenuto a Roma, è già reato. Ma il ddl Zan non tratta di questo (e se i giornalisti l’avessero inteso, eviterebbero di accettare passivamente simili risposte…). Tratta di chi istiga a commettere tali reati. Certo, la repressione sessuale non si supera con la repressione penale. E tutti noi vorremmo che non ci fosse bisogno di simili disposizioni. Per questo (e solo in questo senso) il ddl Zan punta ad un’attività educativa da svolgere anche nelle scuole per prevenire le discriminazioni. Ma è indubbio che il legislatore deve intervenire di fronte ad un fenomeno che, proprio in assenza di specifiche fattispecie di reato, è statisticamente sottostimato (come confermato dall’Osservatorio della Polizia di Stato contro le discriminazioni) e specialmente presente nei social network dove, per malinteso senso di impunità, è più reale e concreto il pericolo che – per così dire – le parole si trasformino in pietre. Mai dimenticare McLuhan: il mezzo è parte integrante del messaggio.
  1. Le parole, giustappunto. Per i contrari il ddl Zan è un testo ideologico, lesivo della libertà di espressione garantita dall’art. 21 Cost., perché non definisce, con la determinatezza propria della legge penale, quali siano gli atti discriminatori e, di conseguenza, quali opinioni vanno considerate reato perché idonee a determinare il concreto pericolo di loro compimento. Falso.

Innanzi tutto il ddl Zan non introduce una nuova fattispecie di reato. Piuttosto estende i delitti già previsti contro l’eguaglianza, aggiungendo alle discriminazioni per motivi “razziali, etnici, nazionali o religiosi” quelle fondate su sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità. Quindi quanti sostengono che si tratti di una proposta di legge repressiva della libertà di espressione dovrebbero per coerenza estendere la loro accusa d’incostituzionalità all’intera disciplina in materia (la c.d. legge Reale-Mancino oggi trasfusa nell’art. 604-bis) e, dunque, invocare sempre e comunque libertà di parola anche in materia razziale, etnica, nazionale o religiosa. Non lo fanno perché (forse) sanno – come vedremo – di avere contro tutta la giurisprudenza.

In secondo luogo ad essere sanzionata per i nuovi motivi che si vorrebbe introdurre (sesso, genere, ecc.) non è la propaganda di idee ma l’istigazione a commettere atti discriminatori. Tra i due concetti c’è, giuridicamente parlando, un abisso. Non deve trattarsi di semplici opinioni ma di parole che, per portata istigativa, rischiano di tradursi o si sono tradotte in concreto in azioni discriminatorie, secondo uno stretto, diretto, conseguenziale nesso di causalità. Insomma verrebbe punito il dicere in grado di tradursi (o già tradottosi) in facere. Insomma, è e rimarrà pienamente legittimo affermare (magari durante un’omelia) l’eterosessualità del matrimonio o criticare le adozioni omosessuali e l’utero in affitto (già vietati), mentre non sarà più possibile aizzare (magari davanti ad un noto luogo di ritrovo degli omosessuali) contro di loro l’odio dell’opinione pubblica per i loro comportamenti ritenuti contrari al buon costume o perché per loro natura pedofili.

Per fugare ogni dubbio in merito, in prima lettura alla Camera è stato approvato un emendamento c.d. salva idee (presentato dal forzista Costa) in base al quale “ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.

Si continua ad obiettare: tale articolo non risolve nulla perché rimane incerto quali siano gli atti discriminatori e, di conseguenze, le opinioni da vietare perché in grado di determinare il concreto pericolo di loro compimento. Alla fine quindi sarebbe sempre il giudice a distinguere tra opinioni riconducibili al pluralismo delle idee e quelle istigatrici all’odio e alla violenza. Per altri, invece, tale incertezza sarebbe in certo modo voluta da chi utilizza in modo strumentale e simbolico il diritto penale così da creare nell’opinione pubblica un allarme sociale che va ben al di là della dimensione del fenomeno. In definitiva: se applichi il ddl Zan, reprimi; se non lo applichi, terrorizzi. Insomma: come fai, sbagli comunque. Il che già dimostra quanto tali critiche contraddittorie finiscano per elidersi a vicenda.

Premesso che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, va innanzi tutto osservato che il concetto di atto discriminatorio è già definito nel nostro ordinamento come “comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica” (art. 43.1 d.lgs. 286/998 Testo Unico sull’Immigrazione, il cui secondo comma specifica taluni atti di discriminazione). Il nostro ordinamento già punisce le discriminazioni, sia dirette che indirette. Nelle prime “una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga” per razza, origine etnica (art. 2.1.a) d.lgs. 215/2003), religione, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale (art. 2.1.a) d.lgs. 216/2003) o sesso (art. 25.1 d.lgs. 198/2006). Nelle seconde,  invece, “una disposizione, un criterio, una prassi,  un  atto,  un  patto  o  un  comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone (…) in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” sempre per ragioni di razza, origine etnica (art. 2.1.b) d.lgs. 215/2003), religione, ideologia, handicap, età, orientamento sessuale (art. 2.1.b) d.lgs. 216/2003) o sesso, salvo che si tratti di requisiti essenziali per lo svolgimento dell’attività lavorativa (art. 25.2 d.lgs. 198/2006). Le discriminazioni indirette sono, quindi, meno manifeste perché si trattano in modo eguale persone che in tal modo però vengono penalizzate rispetto alle altre.

In secondo luogo, le preoccupazioni di quanti temono un’interpretazione giudiziale estensiva di tale nuova fattispecie penale trovano smentita nella consolidatissima giurisprudenza costituzionale e ordinaria (anche estera, sulla base di una legislazione simile a quella che si vorrebbe introdurre) sui c.d. reati di opinione e, in particolare, sui delitti contro l’eguaglianza introdotti dalla legge Reale-Mancino. Non solo sembra pretendersi dal legislatore una disciplina specifica e dettagliata, in contrasto con generalità ed astrattezza che ogni disposizione normativa – penale inclusa – deve avere per potersi applicare negli innumerevoli specifici casi concreti, ma si finisce per sottovalutare che proprio la definizione di pericolo concreto affidata alla valutazione del giudice, entro i marcati confini tracciati da tale giurisprudenza, è di gran lunga più garantista rispetto ad un pericolo astratto predeterminato dal legislatore.

Tali reati di opinione, tra l’altro ormai in gran parte abrogati o depenalizzati, non contrastano con la libertà d’espressione nella misura in cui l’autore vuole andare oltre la critica, sempre legittima ancorché radicale, per tradursi in un “comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti” (C. cost. 65/1970). È quello che la Corte suprema USA definisce “pericolo chiaro ed imminente” (clear and present danger). Ad essere punita non sono, dunque, le idee o le opinioni in sé ma solo se in grado di trasformarsi in azione violenta lesiva in concreto di un bene costituzionalmente protetto. Pertanto, occorre sempre “valutare la concreta ed intrinseca capacità della condotta a determinare altri a compiere un’azione violenta con riferimento al contesto specifico e alle modalità del fatto” (Cass., I pen. 42727/2015).

Ad essere puniti per motivi discriminatori non sono stati mai i sentimenti di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, tutelati dalla libertà d’espressione ex art. 21 Cost., quanto le opinioni per stretta consequenzialità idonee “a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori” (Cass., III pen. 36906/2015) perché esprimono una manifesta volontà d’incitamento all’odio dirette a creare in un vasto pubblico, come nel caso della diffusione ed amplificazione veicolata dai social network, il concreto pericolo del compimento di atti d’odio e di violenza (Cass., VI pen. 33414/2020). I reati d’istigazione a compiere atti discriminatori non si pongono, dunque, in contrasto con la libertà d’espressione perché “l’incitamento ha un contenuto fattivo di istigazione ad una condotta, quanto meno intesa come comportamento generale, e realizza un quid pluris rispetto ad una manifestazione di opinioni, ragionamenti o convincimenti personali” (Cass., V pen. 31655/2001). È il caso delle idee discriminatorie basate sull’etnia del soggetto, e non sui suoi comportamenti, espresse non tra amici al bar ma durante un comizio elettorale o in una trasmissione radiofonica (Cass., V pen. 3722/2020; 32862/2019). Il lettore spero mi perdonerà questa sfilza di citazioni giurisprudenziali, ma credo sia l’unico modo, argomentato e convincente, per dimostrare quanto giuridicamente infondati siano, almeno sotto questo profilo, i timori espressi contro il ddl Zan e come gli argomenti critici sollevati contro di essa, per loro valenza, dovrebbero indurre a rimettere in discussione l’intera legislazione penale contro i c.d. delitti contro l’eguaglianza.

  1. Infine l’ultima accusa: l’ambiguità. Secondo i detrattori il ddl Zan introdurrebbe la nozione di identità di genere, sconosciuta nel nostro ordinamento, dandone una definizione incerta, quale percezione e manifestazione che si ha del proprio genere anche se non corrispondente al sesso biologico o anagrafico “indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione” (art. 1.1.d)). Falso anche in questo caso.

Innanzi tutto l’espressione “identità di genere” è stata già utilizzata in riferimento ai motivi di persecuzione per i quali può essere concessa la protezione internazionale quando vi è un evidente contrasto tra dati anagrafici e rappresentazione esterna di un genere diverso (artt. 10.1.d) direttiva 2011/95/UE e 8.1.d) d.lgs. 251/2007 come modificato dall’art. 1.1.f) d.lgs. 18/2014); oppure alla assoluta imparzialità cui deve essere improntato il trattamento penitenziario (l. 354/1974 come da ultimo modificata dal d.lgs. 123/2018); oppure, infine, al compito del Ministro per le pari opportunità e la famiglia di prevenire e rimuovere le discriminazioni dirette o indirette fondate anche sull’identità di genere (d.p.c.m. 26.9.2019).

In secondo luogo, secondo l’art. 1.1 l. 165/1982 (!) ciascuno può chiedere la rettifica giudiziale del sesso enunciato nell’atto di nascita. Si tratta di una disposizione che, come ha scritto la Corte costituzionale, “costituisce l’approdo di un’evoluzione culturale ed ordinamentale volta al riconoscimento del diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU)” (sentenza n. 221/2015, 4.1). Nello stesso senso la Corte si è espressa con la sentenza n. 180/2017 nella quale ha ribadito “come l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisca senz’altro espressione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere” (5.2).

E se, in origine il suddetto art. 1.1 richiedeva a tal fine l’intervenuta modificazione dei caratteri sessuali (il soma), dopo la citata sentenza del 2017 l’intervento chirurgico di normoconformazione non è più necessario. A quanti sostengono che in tal modo basterebbe la semplice dichiarazione del soggetto di appartenere ad un sesso diverso (self-id) basterebbe ricordare che, sempre per la Corte costituzionale, “va escluso che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione”, essendovi piuttosto “la necessità di un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata; percorso che corrobora e rafforza l’intento così manifestato” (5.2; v. anche la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 10.3.2015, Y.Y. c. Turchia). Al massimo si potrebbe ipotizzare un contrasto a proposito della transizione che se per la Corte deve essere “intervenuta” e “oggettiva” per il disegno di legge, come detto all’inizio, può non essere conclusa; contrasto mi pare superabile intendendo il riferimento della Corte all’avanzato, ancorché non concluso, percorso di transizione. Del resto per la stessa Corte la “intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere” emerge “nel [anziché alla fine del] percorso seguito dalla persona interessata” (5.2)

L’identità di genere è quindi già riconosciuta nel nostro ordinamento e chi ritiene che basti proclamarsi di un sesso diverso per esserlo dimostra ancora una volta non solo la propria ignoranza giuridica, ma di avere una visione strumentale e caricaturale di temi e percorsi esistenziali senz’altro meritevoli di maggiore rispetto.

 

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2 commenti su “Ddl Zan: proviamo a fare chiarezza”

  1. Ritengo il tema importante e l’iniziativa dell’onorevole Zan lodevole, da sostenere. Avendo letto il testo sono tuttavia perplesso per la formulazione, in particolare dell’articolo 4. Perché aggiungerlo (su richiesta dell’opposizione, se ho capito bene) se non serviva prima quando reati simili erano già previsti dal codice penale? Non sono in grado – come la maggior parte di coloro che difendono posizioni ideologiche forti a favore o contrarie – di valutare se le nuove norme sono utili o superflue, essendo la materia altamente tecnica e comunque valutata in ultima analisi dai tribunali. Mi fido quindi dell’analisi esperta dell’autore dell’articolo confermata, almeno per l’utilità delle nuove fattispeci di reato proposte, da una presa di posizione di uno dei giudici della Corte costitzionale. Spero che il testo finale sia il meno contorto possibile. Il resto mi sembra polemica sterile e strumentale.

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  2. L’articolo chiarisce molte cose. Che purtroppo però nel ddl non sono formulate così bene. L’asse semantico legittimo vs legittimo è davvero inutilizzabile per sintetizzare adeguatamente ciò che l’articolo esprime. È impraticabile sia se usato in senso stretto che in senso lato. Perché non togliere semplicemente quel comma

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