La netta approvazione referendaria della riforma costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari pone il tema dell’approvazione di quelle che nella campagna referendaria sono state definite “integrazioni” (dai sostenitori del SI) o “correzioni” (da quelli del NO) costituzionali.
Una campagna referendaria – sia detto per inciso – dalla quale sommessamente ritengo che i giuspubblicisti non escano bene. Per quanto forse inevitabili in tempi di propaganda, le forzature e le sgrammaticature che talora ho sentito e letto – da entrambe le parti, s’intende! – non mi sono parse degne del senso di equilibrio e della complessità che dovrebbero essere proprie del contributo scientifico che gli elettori da noi si attendono. Non perché, ovviamente, la nostra sia una scienza oggettiva ed esatta ma perché il senso di responsabilità con cui dovremmo avvertire il nostro ruolo nei confronti di coloro che ne sanno meno di noi e per questo possono essere facilmente suggestionati dovrebbe indurci a non trasformare la necessaria semplificazione mediatica del messaggio in alibi per affermazioni che se pronunciate in un convegno o scritte in una rivista quantomeno incrinerebbero la reputazione accademica.
Ciò premesso, come noto sono tre le riforme costituzionali attualmente in discussione conseguenti alla riduzione del numero dei parlamentari.
La prima riguarda la riduzione da tre a due del numero dei delegati per ciascuna regione (Valle d’Aosta esclusa) chiamati ad eleggere il Presidente della Repubblica così da ridurne il numero complessivo (da 58 a 39) e mantenerne l’originaria proporzione rispetto agli altri parlamentari (dall’attuale 6,10% al futuro 6,44%). Personalmente, però, non vedo la necessità di tale riforma perché il maggiore peso percentuale che oggi hanno i delegati regionali (58 su 605 “grandi elettori”, pari al 9,58%) non solo non altererebbe gli equilibri politici delle camere (i due delegati sarebbero con tutta probabilità uno della maggioranza e uno dell’opposizione, visto il limite del 60% dei seggi alla coalizione vincente previsto dalle leggi elettorali regionali) ma anzi risulterebbe funzionale all’elezione di un organo chiamato a rappresentare l’unità nazionale anche in senso territoriale, essendo la Repubblica “costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” (art. 114.1 Cost.).
La seconda riforma (c.d. Fornaro) riguarda l’abolizione della “base regionale” che oggi caratterizza l’elezione del Senato, così da ovviare al fatto che, in conseguenza della approvata riduzione, il numero dei senatori da eleggere in alcune regioni sarà così minimo (3 in Umbria e Basilicata; 4 in Friuli Venezia Giulia, 5 in Sardegna e Marche) da trasformare in pratica la formula elettorale da proporzionale a maggioritaria. Intento condivisibile che però dovrà tenere conto che la definizione di circoscrizioni pluriregionali, comprendenti regioni dalla popolazione non equivalente, potrebbe comportare il rischio dell’aggiudicazione di tutti i seggi in palio nella regione maggiore. È quello che accade nella circoscrizione insulare per le elezioni del Parlamento europeo dove, tranne rare eccezioni, i candidati siciliani prevalgono su quelli sardi.
Infine, la terza riforma riguarda la parificazione dell’elettorato attivo e (forse) passivo tra le due camere, cosicché per votare ed essere votati al Senato occorrerebbero la stessa età (rispettivamente 18 e 25 anni) oggi prevista per la Camera, così da ridurre il rischio (di per sé impossibile da eliminare) di avere maggioranze diverse in camere chiamate ad esercitare le medesime funzioni.
Il filo rosso che lega queste ultime due riforme è l’eliminazione dei pur marginali elementi di differenziazione esistenti oggi tra le due camere, con conseguente loro pressoché totale assimilazione, tranne che per il numero dei componenti e la presenza dei senatori a vita. Il fine è chiaro: unificare il più possibile l’attività parlamentare delle due camere, valorizzandone ad esempio gli organi bicamerali. Non a caso si è proposto di aumentare le competenze del Parlamento in seduta comune, a cominciare dal rapporto fiduciario (è la proposta avanzata dal prof. Cheli che secondo me ha però il difetto di lasciare sguarnito il fianco delle crisi semi-parlamentari: ci ritornerò). Del resto, come insegna la migliore dottrina, “bicameralismo e monocameralismo fanno capo a due principi diversi, che valgono indipendentemente dal numero delle Camere esistenti. Così possono aversi Parlamenti formati a due Camere che funzionano secondo un modello di tipo monocamerale (…) in quanto le due Camere sono semplici sezioni di un unico organo titolare delle competenze fondamentali” (M. Volpi, Diritto pubblico comparato, V ed., 2016, p. 489 s.).
Personalmente ritengo che questa non sia la soluzione migliore ed anzi sono convinto che formalizzare il monocameralismo già di fatto esistente indurrà prima o poi a chiedersi con maggiore urgenza perché debbano esistere due camere completamente uguali che fanno le stesse cose e, di conseguenza, se non sia il caso di risolvere una volta per tutte la vera anomalia del nostro sistema istituzionale, e cioè quel bicameralismo che si vorrebbe rendere piuccheperfetto, trasformando finalmente il Senato in camera di rappresentanza territoriale, tassello mancante della riforma del Titolo V.
Del resto non sarebbe la prima volta nella storia che si arriverebbe al levante por el poniente.