di Giuseppe Verrigno
Le distrazioni che l’estate porta con sé non hanno fortunatamente oscurato, perlomeno tra gli studiosi, il confronto costruttivo tra le diverse posizioni in vista del referendum costituzionale sulla «riduzione del numero dei parlamentari».
Oltre le numerose argomentazioni proposte a sostegno del “NO”, tutte le riflessioni sul tema non si soffermano su un punto che pare fondamentale: il sistema dei partiti e il suo stretto rapporto con la qualità della democrazia.
Il c.d. «taglio dei parlamentari» fonda il suo consenso sul sentimento di risentimento che da anni ormai caratterizza il rapporto tra cittadini e politica. Questa forte disaffezione ha radici profonde e si è rafforzata, a ben guardare, a partire dagli scandali che dal 1993 fino ai nostri giorni – si pensi, tra tutti, al caso Lusi e al caso Belsito – hanno contribuito a screditare sempre più la classe dirigente politica e i partiti tutti.
I cittadini, dunque, non credono più nel sistema dei partiti, nella “figura del rappresentante”, rifiutano tutto ciò che alla politica fa riferimento.
Da tutto quanto appresso delineato discendono tutte le proposte che, secondo i principali promotori e sostenitori dell’odierna «riduzione», porterebbero a migliorare l’attuale sistema: e quindi il taglio delle «poltrone», il rafforzamento degli istituti di democrazia diretta con l’introduzione, ad esempio, del referendum propositivo, il necessario e maggiore controllo dei partiti sugli eletti attraverso l’introduzione del vincolo di mandato. La soluzione rappresenterebbe quindi svolta plebiscitaria a scapito dei principi della democrazia rappresentativa.
Orbene, se l’obiettivo del «taglio» – oltre quello di una presunta maggiore efficienza del Parlamento, oltre agli asseriti benefici economici – è di migliorare la qualità della rappresentanza, dal momento che non appare chiaro come la mera riduzione del numero dei componenti dei due rami del Parlamento possa automaticamente portare un miglioramento della qualità dei rappresentanti residui, forse sarebbe stato opportuno, volendo convintamente perseguire i citati obiettivi, proseguire nella strada già tracciata dal Legislatore soltanto pochi anni fa: la valorizzazione del «metodo democratico» a cui, secondo l’articolo 49 della Costituzione, l’attività dei partiti deve essere improntata.
Si fa qui riferimento alla Legge 6 luglio 2012, n. 96 e al D.l. 28 dicembre 2013, n. 149 (come convertito dalla Legge 21 febbraio 2014, n. 13) le quali dettano – seppur solo in parte – alcune prime timide disposizioni proprio in questo senso: valorizzare il ruolo degli “iscritti” ai partiti, favorirne la partecipazione interna, incentivare processi decisionali condivisi e trasparenti. Se da un lato questi provvedimenti hanno messo fine alla contribuzione pubblica ai gruppi politici, dall’altro indicano i principi a cui gli statuti dei partiti debbano ispirarsi nel regolare l’attività interna.
I partiti fautori della Repubblica in Assemblea Costituente, proprio per la grande organizzazione che ognuno di essi poteva vantare, gelosi della loro autonomia, scelsero di non individuare una disciplina dettagliata con cui regolare le loro attività e, per tali ragioni, si limitarono a sancire con l’articolo 49 in Costituzione il solo diritto per tutti i cittadini di associazione in partiti politici, lasciando quest’ultimi, dunque, liberi di autoregolarsi.
E infatti i partiti in quel tempo assolvevano alle loro decisive funzioni di propulsori della democrazia, erano gli «effettivi detentori del potere politico nella vita dello Stato» (Ridola, 1982) e rappresentanti di quel «multipartitismo estremo» (Elia, 1970) che permise alla comunità tutta di riscoprire la democrazia, la partecipazione.
È tuttavia ormai tramontato il modello dei «partiti di massa». Indubbio è lo straordinario servizio che prestarono alla vita democratica del paese, trasformando l’entusiasmo come la rabbia dei cittadini in partecipazione, ascoltando i bisogni di quest’ultimi attraverso le sezioni di quartiere e i circoli come grazie ad un folto stuolo di funzionari e rappresentanti presenti su tutto il territorio nazionale, formando i futuri amministratori, educando tutti i consociati alla vita democratica.
Tutto questo ha ormai lasciato il posto al «leaderismo» (Prospero, 2010) che oggi appare centrale nel sistema dei partiti e nell’intero panorama politico. Tutti gli attuali gruppi politici, infatti, sono sempre più organizzati in senso verticistico e centralizzato, rinunciano ai folti apparati territoriali puntando tutto sulla figura del capo partito, preferiscono al rapporto diretto e materiale con i cittadini un rapporto diretto sì ma ormai pressoché virtuale, costante.
L’onda crescente dell’antipolitica ha negli anni condotto ad una delegittimazione e al conseguente ridimensionamento del ruolo dei partiti politici, tanto che si è giunti a parlare dell’associazione in partiti come di «un diritto che ci è sottratto» (su questo giornale, R. Bin, 27 dicembre 2019).
La democrazia è un processo lento e faticoso che non può fare a meno dei partiti politici e del loro ruolo, principali punti di contatto tra le istanze dei cittadini e le istituzioni: pertanto, se veramente l’obiettivo della legge costituzionale in commento è quello di riavvicinare i cittadini alla politica come quello di migliorare qualitativamente i rappresentanti e la rappresentanza, forse sarebbe stato più efficace in questo senso stabilire una puntuale disciplina dei partiti politici, prendendo atto del tramonto della stagione dei partiti di massa. Una disciplina, dunque, che prevedesse al suo interno il diritto di tutti gli iscritti a partecipare alla determinazione delle scelte politiche che impegnano il partito, alla selezione delle candidature, che garantisse loro una effettiva partecipazione, che tutelasse le legittime ambizioni e aspettative di ognuno di essi – un core minimo di diritti, già peraltro individuato nel 2016 con l’A.S. 2439, progetto di legge naufragato al Senato dopo l’approvazione della Camera.
In tal senso si sarebbe potuta assecondare quella grande voglia di partecipazione che i cittadini manifestano sempre più (Cassese, 2018) e che pare oggi bloccata dall’attuale sistema, si sarebbero così permesso e incentivato l’ingresso nei partiti della società civile e dei giovani, sempre più distanti dalle organizzazioni politiche, consentendogli di avere consapevolezza dei soggetti che rappresentano il loro territorio, del loro operato, permettendogli di credere nei partiti e nel contributo che tramite questi loro stessi possono dare alla comunità costituzionale. Si sarebbe così posto un argine a quei fenomeni dispercettivi che inducono oggi i cittadini a convincersi dell’inoperatività come dell’inutilità dei propri rappresentanti.
«È nei partiti infatti che si preparano i cittadini alla vita politica e si dà modo ad essi di esprimere organicamente la loro volontà, è nei partiti che si selezionano gli uomini che rappresenteranno la nazione nel Parlamento. Mi pare quindi che non si possa prescindere anche per essi dall’esigere una organizzazione democratica». Queste parole che l’On. Mortati pronunciava in Assemblea Costituente sembrano indicarci la strada, strada che poteva percorrersi in antitesi al «taglio dei parlamentari» e che non può non imboccarsi anche in caso di vittoria del “Sì” al referendum.
Conseguenza della «riduzione» del 36,5 per cento dei rappresentanti sarà, infatti, non la migliore qualità della rappresentanza, non il riavvicinamento dei cittadini alla politica, bensì il rafforzamento dei poteri dei partiti in particolare nella scelta delle candidature, il rafforzamento di un sistema sempre più chiuso e sempre più piramidale che rischia di creare una ancor più ampia frattura tra il corpo sociale e le istituzioni che non possiamo più permetterci.