La frittata del referendum

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di Francesco Palermo

Ci sono valide ragioni a sostegno del sì come del no al referendum costituzionale del 20 e 21 settembre. A favore dell’approvazione della riforma costituzionale c’è che si tratta di una revisione puntuale, a fronte delle fallite proposte strutturali del 2006 e del 2016. Una riforma che potrebbe metterne in moto altre, quantomai necessarie, e che ha un valore simbolico di semplificazione e risparmio. Contro la riforma si obietta che manca di visione, giacché nessuno sa se e quali altre riforme potrebbero seguire, rischiando di lasciare un parlamento poco funzionale e meno rappresentativo, a tutto svantaggio di donne e minoranze. E che il valore simbolico è quello dell’antipolitica distruttiva e non costruttiva.

Il problema non è certo il taglio dei parlamentari. Con alcuni aggiustamenti il Parlamento può benissimo lavorare con numeri minori. Forse anche meglio, se gli aggiustamenti sono buoni. In fondo la gran parte delle altre democrazie ha parlamenti proporzionalmente più piccoli. Di questi aggiustamenti si parla in modo generico solo in un breve documento politico di maggioranza dell’ottobre 2019, che ne menziona tre: legge elettorale, regolamenti parlamentari e parificazione dell’elettorato attivo e passivo per entrambe le Camere. Meno del minimo sindacale, e in un anno non si è realizzato nulla.

Il problema non sono nemmeno le riforme che non si faranno ma che andrebbero fatte con urgenza, come la rappresentanza dei territori, la trasformazione del Senato, il rapporto di fiducia, uno statuto delle opposizioni. O meglio, non sarebbero un problema se ci fosse un piano su cosa e come continuare sul cammino delle riforme. Ma purtroppo questo piano non c’è, ed è impensabile che venga elaborato e attuato da questo Parlamento, dopo aver assistito al teatro dell’approvazione di questa legge di riforma, votata nell’ultimo passaggio alla Camera quasi all’unanimità (553 sì, 14 no, 2 astenuti), ma solo dopo che il Senato aveva evitato di raggiungere in seconda lettura la maggioranza dei due terzi, rendendo così possibile il referendum. Un gran numero di parlamentari ha votato la riforma sperando, nemmeno tanto segretamente, che venisse affossata dal referendum. La strumentalizzazione della costituzione per ragioni politiche contingenti (salvare la legislatura è la più nobile di queste, ma ce ne sono altre, come mettere in difficoltà il governo) può essere un valido argomento sia a favore della necessità di punire un parlamento meschino e votare sì, sia della voglia di smascherarne il machiavellico giochino e votare no.

Insomma, il problema non è tanto il merito. È lo strumento. Quando una revisione costituzionale ha un sostegno così ampio come quello con cui la Camera ha votato in ultima lettura questa riforma, la costituzione impedisce che si faccia ricorso al referendum. E lo fa per un preciso motivo: quando la volontà politica è chiara e trascende una maggioranza occasionale, il Parlamento si assume di fronte all’elettorato la responsabilità, non la scarica sugli elettori. I parlamentari sono pagati per questo, verrebbe da dire, visto che pare che interessino solo i costi. I costituenti non avevano invece previsto la finta unanimità, o almeno non se ne trova traccia nei lavori dell’Assemblea… L’aggiramento che si è prodotto mostra una politica debole, pavida, bisognosa di supporto popolare su questioni prive di alcun significato reale, e quindi caricate sul piano simbolico. Persino il vero e forse unico vantaggio del referendum è andato perso: quello di innescare un dibattito e contribuire a una maggiore informazione dei cittadini. Perché si è parlato del nulla: di risparmi e di attacchi alla democrazia, slogan vuoti come vuota è questa riforma.

Così si dà la costituzione (poco importa se un suo pezzetto quasi insignificante) in pasto alla contingenza politica, aprendo un’alternativa tragica tra iniziare un cantiere senza avere un progetto e seppellire per un bel po’ ogni ipotesi di riforma, comprese quelle davvero importanti, perché nessuno vorrebbe più bruciarsi con le riforme sapendo che falliscono regolarmente nel voto referendario.

Ci sono valide ragioni per votare sì e per votare no. Ma comunque vada, sarà un insuccesso. Perché il voto alimenterà il distacco tra società e istituzioni e la sfiducia nella politica, rendendola politica ancora più debole e la società ancora più divisa e arrabbiata. Ma politica debole e società divisa sono le vere ragioni dell’inefficienza del sistema, ben più del numero dei parlamentari. Ormai il sì o il no importano poco: la frittata è già fatta, resta solo da decidere il sapore. E sarà comunque amaro.

 

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