E’ comunemente accettata l’idea che l’Assemblea Costituente si avvalse dell’apporto e della collaborazione della migliore dottrina giuspubblicistica italiana del tempo, così fondendo in un unico risultato apprezzabili scelte costituzionali di valore con soluzioni tecnicamente pregevoli. Anche la ricostruzione storica di quel risultato in termini di compromesso fra forze politiche diverse e di diverso orientamento va nella stessa direzione, se non altro perché segnala ed avvalora l’esistenza di una pluralità di contributi sia sul piano degli orientamenti culturali che su quello degli accorgimenti tecnici. Che poi tutto ciò abbia inescapabilmente prodotto una forma di governo rivelatasi di fatto discutibile sotto il profilo dell’efficienza, è conclusione tutta da dimostrare, dovendo l’interprete fare i dovuti conti con le conseguenze addebitabili alla sovrapposizione del sistema politico – partitico agli arrangiamenti costituzionali. Basterebbe pensare, ad esempio, all’orientamento consolidatosi in materia di revoca dei ministri per cui, con una rigida interpretazione dei vincoli di coalizione, al Presidente del Consiglio si è negato il versante negativo del potere positivo di proporre al Presidente della Repubblica la nomina dei titolari dei dicasteri.
Comparata con quello storico evento la revisione costituzionale per la riduzione del numero dei membri di ambedue le Camere rivela una modestia intellettuale sconcertante. E’ un intervento che non affronta le conseguenze che da esso potranno derivare, come del resto dimostrano i consensi di chi giustifica la sua accettazione nella speranza di futuri provvedimenti di incerta o dubbia consistenza. E’ un intervento che non costituisce una vera riforma perché – se così fosse – dovrebbe avere un’impostazione più larga, attenta ai suoi riflessi in termini di funzionamento degli organi interessati, e di controllo e bilanciamento dei relativi poteri. Quella che abbiamo di fronte è semplicemente una misura, che si presta ad essere letta con richiamo alle dottrine in materia di leggi provvedimento, nella misura in cui ci troviamo di fronte ad un atto erosivo – allo stato – delle aspettative di una ristretta categoria di persone e privo di una seria componente ordinamentale. Nella mente dei suoi originari autori la sua giustificazione sta nella valutazione negativa dell’attuale comportamento dei soggetti interessati dal provvedimento medesimo, e nella convenienza della destinazione ad altri fini delle risorse finanziarie a quei soggetti oggi assegnate. Si tratta, dunque, di scelta che viene giustificata nei ristretti termini della misura adottata in vista dell’eliminazione di quelli che vengono definiti privilegi di casta.
Nella sua presente formulazione essa nulla offre a conforto delle opinioni che pure sono state avanzate a proposito della maggiore o più ridotta efficienza delle Camere dopo l’accettazione referendaria della revisione costituzionale in oggetto. Per un verso, non si comprende come la minore presenza di figure rappresentative nelle due Camere dovrebbe consentire a queste di fare meglio il loro lavoro, a meno che non si ritenga che una abbondante veicolazione di domande ed interessi politici in Parlamento non rappresenti un grave rischio per la c.d. governabilità del Paese: ma allora lo si sarebbe dovuto dire. E, d’altra parte, è anche vero che dagli oppositori della riforma nulla è stato detto per quanto riguarda la necessità di una larga intermediazione dei membri delle Camere (e della possibile utilizzazione di vie alternative) ai fini della formazione delle decisioni parlamentari. E qui sta, semmai, la ragione della crisi del Parlamento per sua inadeguata valorizzazione. L’assenza di materiale probatorio al riguardo ci fa guardare con nostalgia ai tempi in cui i discorsi su tematiche siffatte potevano trovare il conforto degli studi di Giovanni Sartori, di Giorgio Galli e di Giuseppe Di Palma.
Viene così spontaneo osservare che anche qualificare di populismo questo intervento è fare ad esso troppo onore in quanto gli accredita almeno una parvenza di ideologia o dottrina politica, che nel caso è del tutto assente. L’unica idea ad essa sottostante è che ciò che conta nei processi politico – parlamentari è la possibilità che fra le varie posizioni in gioco una prevalga sull’altra per il numero degli apporti, per la sua capacità di aggregare contabilmente una maggioranza. Il mito di una maggioranza di voto è ciò che rileva, senza attenzione per il confronto e il dibattito fra le posizioni e per il variegato contributo di pensiero ed opinione di queste alla formazione delle decisioni. La piattaforma Rousseau è il modello e le votazioni referendarie o plebiscitarie le forme ideali di implementazione costituzionale di quel modello. Dopo tante discussioni sul necessario coinvolgimento di più forze politiche nelle scelte costituzionali e nelle relative riforme, ci si riduce a rivedere la Costituzione secondo gli orientamenti di una forza che già vede ridursi i consensi per una volta casualmente ottenuti in una consultazione elettorale. E non ci si lasci confondere dai voti parlamentari sin qui espressi a supporto della legge di revisione, tutti giustificati più dalla preoccupazione di tenere unite improbabili maggioranze di governo (Governi Conte 1 e 2) che dalla convinta accettazione della proposta di revisione. Che è ambiguità che pesa anche sull’imminente referendum, nella misura in cui spingono nella direzione del sì le scelte fatte di legare l’accettazione della revisione costituzionale e la positiva risposta alla consultazione referendaria all’avvento e continuità del Governo Conte 2. Il quale avrebbe bisogno di ben altre motivazioni e supporti.
Ma qui siamo su un terreno sul quale non è consentito addentrarsi al costituzionalista cui si chiede un giudizio di competenza tecnica sul progetto giacché egli non ha titolo – se non come un cittadino fra gli altri – per dare consigli di schieramento politico. Nella speranza che gli elettori facciano buon uso della libertà di scelta che è data loro.
Grazie di cuore, professore.