di Francesco Contini (22.08.20)
La Corte Costituzionale ha dato il via libera: il 20 e 21 settembre si voterà anche per il taglio dei parlamentari. La scelta è semplice: vogliamo o no ridurre i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200?
La reazione immediata è ovvia: sì, assolutamente sì.
La risposta è così banale che il tema sembra quasi scomparso dalla cronaca politica e, ne sono certo, ad oggi in pochi sono a conoscenza dell’esistenza di questo referendum.
Oltre l’apparente semplicità e il risultato ormai dato da tutti per scontato, questo voto nasconde insidie rivelatrici dello stato di salute della nostra democrazia rappresentativa e, più in generale, della concezione che abbiamo della Politica.
Procediamo scientificamente: quali sono le cause del taglio dei parlamentari, quali gli effetti?
Punto primo: cause.
Nei disegni di legge presentati alle Camere e nelle dichiarazioni politiche dei sostenitori della riforma sono due gli argomenti principali addotti a sostegno della tesi: modernizzazione delle Istituzioni e risparmio di soldi pubblici.
Il concetto di modernizzazione, ormai da un decennio centrale nella vita politica, si è dimostrato una lama a doppio taglio.
Nel panorama ideologico grillino, oltre le ondivaghe posizioni su doppio mandato-Tap-Tav-Europa, un solo punto è rimasto fermo negli ultimi anni: la fede nella democrazia digitale, il convincimento che, come affermato da Casaleggio, “un giorno potremo non avere più un Parlamento”.
È questo, allora, che si cela dietro la “modernizzazione”? È una volontà punitiva nei confronti della democrazia rappresentativa la vera ragione di questa riforma?
Se così fosse, si perseguirebbe un risultato potenzialmente giusto, l’efficientamento del sistema, spinti da motivazioni a mio parere profondamente errate.
La democrazia rappresentativa, eredità delle grandi rivoluzioni liberali, fondata sulla centralità del Parlamento, è un valore da difendere nel modo più assoluto, contro ogni tentazione populistica. L’idea di sostituire il Parlamento con una piattaforma Rousseau accessibile a tutti, in cui i cittadini, votando, scelgano direttamente, senza politici e partiti, è non solo sbagliata, ma pericolosa.
Già Weber, nel secolo scorso, riflettendo su questa eventualità, ne evidenziava i limiti. Il popolo esprimendosi direttamente può dire “Ja order Nein”, “Sì o no”.
Come è compatibile tutto ciò con scelte complesse che necessitano inevitabilmente di una discussione politica? L’avversione nei confronti dei partiti che animano lo scenario odierno non può portarci a distruggere la Politica, Arte nobile che nel confronto trova la sua ragion d’essere.
Il secondo argomento addotto a sostegno del taglio è il risparmio di spesa.
Meno parlamentari, meno stipendi da pagare, meno soldi spesi.
Il risentimento per una classe politica i cui scandali sono all’ordine del giorno non potrà che determinare una scelta emotiva e passionale.
Anche in questo caso, però, una analisi approfondita della questione inviterebbe alla prudenza.
Basta volgere lo sguardo alla storia recente. L’abolizione dei consigli provinciali direttamente eletti ha comportato un risparmio di 72 milioni di euro. D’altra parte, però, sono state spese centinaia di milioni per il trasferimento di risorse umane e materiali da province a regioni e, in più, si sono accumulati ritardi nelle azioni amministrative. Si pensi alle condizioni sempre più fatiscenti di strade e scuole secondarie.
Non sempre da un risparmio nel breve termine deriva un risparmio anche nel medio-lungo periodo. Ciò premesso, ritengo fin troppo semplicistico ridurre una riforma della Costituzione a una questione di pochi milioni (57 ogni anno per la precisione, pari allo 0,007% della spesa pubblica, come dimostrato dall’Osservatorio Conti Pubblici diretto da Cottarelli).
Punto secondo: effetti.
La possibile conseguenza più evidente sarà la riduzione del numero dei partiti in Parlamento, causa estinzione dei più piccoli.
Ogni collegio avrà la possibilità di eleggere meno parlamentari, da ciò potrebbe derivare una rappresentanza quasi azzerata per le forze minori, specialmente nei collegi più ristretti.
I sostenitori della riforma ritengono questo un effetto estremamente positivo: un sistema tendente al bipartitismo garantisce, nella maggior parte dei casi, una maggiore stabilità dell’esecutivo.
Dubito fortemente che le cose andranno così. I gruppi parlamentari che fungono da ago della bilancia per questo o quel governo, nella maggior parte dei casi, nascono dopo le elezioni, con scissioni ormai all’ordine del giorno. Non vedo come questo rischio possa essere evitato con una riduzione numerica non accompagnata da alcuna riforma strutturale della Costituzione o dei regolamenti parlamentari.
Altra conseguenza quasi certa è il rafforzamento delle segreterie di partito nella scelta dei candidati, determinando un ulteriore colpo al sistema, già in crisi, delle autonomie. Preferiamo o no assecondare queste tendenze neo-centraliste?
Ultimo dubbio, a cui solo il futuro e la nuova legge elettorale potranno rispondere:
la non omogeneità del taglio (Umbria e Basilicata perdono il 60% dei seggi a fronte di una media nazionale del 36,5%) e i collegi più grandi incideranno negativamente sulla logica fiduciaria rappresentante-rappresentato?
Quella che ci apprestiamo a vivere si prospetta come una delle campagne referendarie meno discusse di sempre. Quasi la totalità dei partiti, infatti, si dichiara favorevole.
Risultato: i parlamentari saranno ridotti (il che non è un male in sé), i problemi strutturali rimarranno (il che un male lo è di certo).
Il regionalismo, il superamento del bicameralismo perfetto, la velocizzazione dell’iter legislativo, la centralità del Parlamento stesso (ogni anno sono approvate solo l’1,36% delle leggi di iniziativa parlamentare contro il 68,69% dei disegni di legge del governo): tutti nodi non sciolti, questioni rimandate a data da destinarsi.
Cambiare tutto perché tutto rimanga com’è: l’Italia gattopardesca rimane, ancora una volta, fedele a se stessa.