di Alessandro Morelli
Qualche giorno fa Matteo Salvini ha chiesto agli italiani “pieni poteri” per poter così realizzare quanto promesso di fare in campagna elettorale, “fino in fondo, senza rallentamenti e senza palle al piede”. La formula “pieni poteri”, com’è stato notato da Oreste Pollicino e Giulio Enea Vigevani in un articolo apparso sul Sole 24 Ore, evoca un passato tragico. Una simile richiesta fu formulata da Benito Mussolini nel celebre “discorso del bivacco” del 16 novembre 1922, il primo tenuto dal Duce alla Camera dei deputati nella veste di Presidente del Consiglio dei ministri. Un altro precedente è quello che si ebbe successivamente in Germania, il 24 marzo 1933, quando il Parlamento approvò il “decreto dei pieni poteri”, con cui furono introdotti gli strumenti normativi attraverso cui il Partito nazionalsocialista poté consolidare il proprio regime totalitario. Tali precedenti erano vivi nella memoria dei Padri costituenti italiani che, perfino nella disciplina dello stato di guerra, decisero di non prevedere l’attribuzione al Governo dei “pieni poteri”. L’articolo 78 della nostra Costituzione, stabilisce, infatti, che anche in questo caso estremo le Camere conferiscano all’Esecutivo i “poteri necessari”, mantenendo, dunque, un criterio di proporzionalità tra mezzi e fini che appare del tutto assente nella formula dei “pieni poteri”.
Non è certo la prima volta che Salvini usa espressioni che richiamano l’esperienza storica del fascismo. Così, per fare solo qualche esempio, a fronte delle critiche provenienti dai vertici dell’UE all’ultima manovra varata dal Governo gialloverde, il Ministro dell’Interno ha ripreso il “me ne frego” dannunziano, frase originariamente propria degli Arditi nella Prima guerra mondiale, poi usata anche da Mussolini nei suoi discorsi. In un’altra occasione, il leader della Lega ha lanciato l’ipotesi di un nuovo “asse Roma-Berlino”, espressione che ha evocato a molti l’omonima alleanza tra Germania e Italia durante la Seconda guerra mondiale.
In diverse occasioni, dopo le polemiche suscitate da tali uscite, il Ministro dell’Interno ha risposto con sarcasmo alle critiche, definendo del tutto infondate le accuse mossegli di alimentare nostalgie autoritarie. Ma lo ha fatto mantenendo un’ambiguità di fondo che è propria del discorso simbolico. Così, per tornare al caso più recente, nel clamore suscitato (anche, e soprattutto, in Italia) dalla richiesta di “pieni poteri”, Salvini ha preferito rispondere, su Twitter, a un articolo apparso sulla stampa tedesca in cui si esprimeva forte preoccupazione per la prospettiva di una sua vittoria alle prossime elezioni. “Non siamo più negli anni Trenta – ha scritto il leader della Lega –, nel nostro Paese non ci sono Hitler all’orizzonte e chi governa in Italia lo decidono gli italiani”. Un attacco al Fűhrer e alla storia della Germania (nel quale però il Ministro si è guardato bene dall’evocare il Duce, che del primo fu ispiratore…) compatibile con la visione neofascista secondo cui proprio l’alleanza con Hitler sarebbe stato uno degli errori strategici che avrebbero compromesso un’esperienza politica giudicata complessivamente positiva.
Perché questi continui richiami al linguaggio e alla storia del fascismo storico?
I simboli, com’è noto, hanno un ruolo fondamentale nella vita politica. Sono elementi essenziali del processo d’integrazione che alimenta il seguito dei partiti e dei movimenti. Salvini ha dimostrato una straordinaria capacità nel marketing politico, il cui impiego ha agevolato un eccezionale incremento dei consensi della Lega, tanto da farne – stando almeno agli ultimi sondaggi – il primo partito italiano. Nel passaggio dall’originaria Lega Nord, partito territoriale, federalista e a tratti secessionista, alla Lega attuale, nazionalista e attiva anche nel Centro-Sud, non è certamente sfuggita a Salvini e ai suoi spin doctor la necessità di riorganizzare l’immaginario simbolico-politico di riferimento. Il “dio Po”, la Padania e Alberto da Giussano sono simboli estranei, persino respingenti per l’elettorato centro-meridionale al quale ora guarda Salvini. D’altro canto, le “indagini di mercato” svolte dagli specialisti della comunicazione di cui si è servita la Lega, soprattutto attraverso il monitoraggio dei social network, devono aver ispirato l’idea di attingere al mondo simbolico del fascismo, che ha una dimensione nazionale, non delimitata territorialmente, e, in più, possiede il gusto accattivante del proibito. L’uso della mitologia e della simbolica del ventennio, tuttavia, è rischioso perché può sempre degenerare nell’apologia. Pertanto, tale uso al momento si traduce quasi esclusivamente nell’impiego di un linguaggio allusivo, che però potrebbe preludere ad altre e ancor più esplicite evocazioni.
Si tratta, dunque, soltanto di innocue operazioni di marketing politico? Non direi. I simboli incidono certamente sulla sfera emotiva delle persone, ma rinviano anche a mondi concettuali e possono fornire un orizzonte di senso all’agire politico. I continui riferimenti ad espressioni del Duce o a simboli di quell’epoca richiamano i paradigmi dell’esperienza autoritaria italiana: l’idea dell’uomo forte al comando, la prospettiva di un potere incontrollato, non limitato e soggetto all’azione di contrappesi ecc.
Ciò non significa che sia reale il pericolo di un ritorno del fascismo. Lo storico Emilio Gentile, in un recente pamphlet (Chi è fascista, Laterza, Bari-Roma 2019), critica radicalmente l’idea del “fascismo eterno”, prospettata, con successo, da Umberto Eco in un saggio del 1995, tornato di recente in circolazione (Il fascismo eterno, La nave di Teseo, Milano 2017).
Anche secondo Eco, in verità, non vi è il rischio di ricomparsa del fascismo nella sua forma originale; ma, d’altro canto, “anche se i regimi politici possono essere rovesciati, e le ideologie criticate e delegittimate, dietro un regime e la sua ideologia c’è sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni”. E proprio per il permanere di tale modo di pensare e di sentire sarebbe possibile, in ogni momento, un ritorno del fascismo sotto altre vesti. I tratti che contraddistinguerebbero questo “fascismo eterno” (o “Ur-fascismo”) sarebbero il tradizionalismo, il rifiuto del modernismo, il culto dell’azione per l’azione, l’intolleranza verso ogni forma di disaccordo (visto sempre come un tradimento), la paura della diversità, la derivazione da una qualche forma di frustrazione sociale, l’ossessione del complotto, l’idea (portata avanti grazie a “un continuo spostamento di registro retorico”) secondo cui i nemici sarebbero al tempo stesso troppo forti e troppo deboli, l’avversione per il pacifismo e l’idea che la vita stessa sia una “guerra permanente”, l’elitismo popolare, il culto dell’eroismo e della morte, il machismo, il “populismo qualitativo” (il popolo sarebbe concepito “come una qualità, un’entità monolitica che esprime la ‘volontà comune’”), l’uso di una “neolingua” orwelliana fatta di “un lessico povero” e di “una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complesso e critico”.
Le accuse di Gentile alla tesi del “fascismo eterno” sono diverse: secondo lo storico, per una sorta di eterogenesi dei fini, tale idea potrebbe paradossalmente indebolire l’antifascismo, il quale, nella prospettiva del perpetuo ripresentarsi del fenomeno, non risulterebbe avere effettivamente debellato il fascismo nel 1945; inoltre, l’idea dell’eterno ritorno potrebbe favorire la fascinazione del fascismo stesso sui giovani “che poco o nulla sanno del fascismo storico, ma si lasciano suggestionare da una sua visione mitica, che verrebbe ulteriormente ingigantita dalla presunta eternità del fascismo”. Una siffatta idea si baserebbe sull’uso di analogie produttrici di falsificazioni: alla storiografia, “conoscenza critica scientificamente elaborata”, si sostituirebbe, infatti, quella che lo storico, con un efficace neologismo, chiama l’“astoriologia”, una narrazione che avrebbe con la storia la stessa relazione che l’astrologia ha con l’astronomia. Nell’“astoriologia” il passato storico sarebbe continuamente “adattato ai desideri, alle speranze, alle paure attuali”. In tale prospettiva, si finirebbe erroneamente con il considerare espressioni del “fascismo eterno” anche gli attuali movimenti populisti che esaltano quel dogma della sovranità popolare che il fascismo negava, “proclamandosi il più formidabile nemico dei principi della Rivoluzione francese”.
Le paure del ritorno del fascismo sono, dunque, infondate. Ciò significa che la democrazia non corre oggi alcun pericolo e che il sistema delle garanzie costituzionali è così solido da rendere remote e perfino risibili le troppo spesso sbandierate preoccupazioni di una degenerazione dell’ordinamento in senso autoritario?
In realtà, per un verso, parrebbe che il contrasto tra le opinioni di Eco e di Gentile poggi su una questione meramente nominalistica – quella del significato proprio del termine “fascismo” – e, per altro verso, che i due Autori si muovano su piani diversi: su quello antropologico il primo, su quello storico il secondo. Se, infatti, non sembra esservi dubbio che, risultando molto diverso il contesto sociale, economico e politico dell’epoca fascista rispetto a quello attuale, non sia replicabile il fascismo nelle sue fattezze originali, d’altro canto, non si può nemmeno sostenere – senza cadere in un’analoga fallacia – che la democrazia sia “eterna”, una forma istituzionale che si regge da sé, che non necessita di cure e d’interventi e che può sopravvivere a tutto, a qualunque attacco.
Occorre naturalmente chiarire a quale concetto di “democrazia” si faccia riferimento, trattandosi anche in questo caso di un termine declinabile in molti modi diversi. In realtà, ad essere sotto attacco da tempo – soprattutto da parte di quei movimenti populisti che pure esaltano il dogma della sovranità popolare – è la liberaldemocrazia o, meglio, la democrazia costituzionale, una forma di Stato nella quale il principio di maggioranza non è assoluto, ma incontra invalicabili confini istituzionali che servono a salvaguardare i diritti fondamentali degli individui e delle minoranze. Da tempo, ad esempio, il primo ministro ungherese Victor Orbán promuove una “democrazia illiberale”, ma sono in molti a muoversi nella stessa direzione.
Il punto sta tutto qui. Appare sempre più diffusa oggi l’idea di un “popolo” infallibile, intendendosi con tale termine un’entità astratta, organica e omogenea, coincidente poi di fatto con la maggioranza politica legittimata dal voto popolare. In tale prospettiva, la tutela dei diritti fondamentali sarebbe una questione rimessa alla sensibilità politica della maggioranza di turno e nessun organo privo di legittimazione elettorale potrebbe opporsi alla maggioranza politica uscita dalle urne, anche solo per garantire gli stessi diritti fondamentali. Gli organi di garanzia, dunque, dovrebbero limitarsi a garantire l’attuazione della volontà espressa dalla maggioranza politica.
La democrazia costituzionale presuppone, invece, che i diritti di libertà vadano salvaguardati anche contro la maggioranza, che peraltro non è infallibile e può sbagliare esattamente come sbagliano i singoli individui. Gli organi istituzionali che svolgono funzioni di garanzia non sono espressione di poteri forti che intendono sopraffare abusivamente la volontà del popolo sovrano, come vorrebbe la narrazione populista oggi tanto in voga. Sono, invece, istituzioni la cui sopravvivenza e il cui corretto funzionamento servono a impedire che il sistema democratico si traduca in una mera tirannia della maggioranza. Un modello efficacemente sintetizzato dalla Carta repubblicana, nel suo primo articolo, il quale, al secondo comma, prevede che la sovranità appartiene al popolo, il quale però può esercitarla soltanto nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione stessa.
Quello della democrazia costituzionale non è certo un modello perfetto. Come tanti hanno evidenziato, il sistema istituzionale necessita da troppo tempo di importanti interventi di riforma e di altri di semplice manutenzione. Con tutti i suoi limiti, però, tale modello è ancora quello in grado di garantire al meglio i diritti umani. E, soprattutto, è il sistema istituzionale vigente nel nostro Paese.
Chi chiede al popolo “pieni poteri”, chi risponde in modo sprezzante alle legittime critiche delle istituzioni sovranazionali e propone alleanze con altri Stati secondo la logica schmittiana del conflitto tra amico e nemico non può certo riportare in vita il fascismo storico, ma mostra di condividere il paradigma di una maggioranza sovrana, padrona dei diritti degli individui e delle minoranze. Le trasformazioni istituzionali che potrebbero essere indotte dal consolidarsi di tale visione sono facilmente prevedibili: diversi sono i Paesi europei nei quali, negli ultimi anni, l’affermazione di “populismi di governo” ha condotto all’adozione di misure volte a ridimensionare il ruolo e le funzioni della magistratura e degli organi di giustizia costituzionale (si pensi soltanto ai casi dell’Ungheria e della Polonia). Questi sono i veri pericoli che corre oggi la democrazia.
Il fascismo storico di cui il nazionalsocialismo era un’emulazione non tornerà. Ma entrambi erano etno-nazionalisti. Entrambi hanno negato e distrutto la democrazia liberale, hanno messo la decisione politica – supportata prima dal consenso (che si creava allora attraverso la propaganda, oggi attraverso il controllo dei media e la manipolazione dell’informazione), poi dalla ragion di stato e infine dalla paura – al di sopra della legge (positiva) e del diritto (naturale). In penultimo (l’ultimo essendo stato lo stermino) hanno fomentato prima e fatto poi la guerra nel mondo e con i loro vicini. Quanto ci manca? Anzi rispetto al duce storico quello nostrano è un ignorante, truffatore, bugiardo, incapace e codardo. Non sarà storico, ma c’è peggio di quello storico! Leggete il mio articolo di 11 mesi fa su “il populismo italiano (che) arriva da lontano” pubblicato da Lovoce.info, quando su questo forum si celebrava ancora virtù e originalità del contratto non allenta di governo! Gli anticorpi per evitare la degenerazione delle istituzioni democratiche alla quale assistiamo non da ieri, ma da 15, forse 25 anni, in questo paese sono troppo debolì.
Errata corrige: “contratto, non alleanza, di governo”.