Capisco, leggere le 50 pagine (per altro ben scritte) inviate al Senato dal Tribunale dei ministri di Catania porta via tempo, più o meno quello che servirebbe a scrivere 500 tweet o anche più. Per cui si sono sentiti e letti interventi, provenienti anche da fonti autorevoli e “tecniche”, che vagano sulle nuvole del preteso abuso dei poteri giudiziari da parte di giudici che pretenderebbero di estendere i loro poteri giudicando degli atti politici del Governo. Ma è davvero così? Neppure un po’.
Se i commentatori avessero impiegato qualche minuto a leggere la domanda di autorizzazione a procedere presentata al Presidente del Senato (e dal Senato regolarmente pubblicata), forse avrebbero stemperato i toni e centrato meglio il dibattito: dando così prova anche di un minimo di rispetto per i giudici catanesi.
Il ragionamento che essi sviluppano è semplice e segue un percorso lineare, che provo a ricostruire qui:
- Il compito del Tribunale dei ministri non è valutare se un determinato comportamento sia o meno giustificabile in base a quello che prevede la legge cost. 1/1989, art. 9.3, cioè se il ministro “abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”: questo compito è riservato al Senato, ed è per questo che il Tribunale chiede al Senato di decidere in merito.
- Il compito del Tribunale dei ministri riguarda invece due quesiti preliminari: se un determinato atto o comportamento possa costituire un reato; se quel determinato atto o comportamento sia imputabile a un soggetto qualificabile come ministro e rientri o meno nell’esercizio delle funzioni ministeriali (in questo caso il reato sarebbe aggravato).
Vi è, al fondo di questa impostazione, una interessante ricostruzione della normativa introdotta dalla legge cost. 1/1989 per l’impeachment del ministro: alla sua base c’è la separazione tra l’imputazione penale, che procede per le vie consuete della procedura penale per l’accertamento e la repressione dei reati, e la giustificazione politica dell’atto, che viene riservata al parlamento. Ma alla base di questa impostazione c’è una affermazione assolutamente condivisibile per cui la categoria dell’atto politico è necessariamente rigorosamente ristretta in uno Stato di diritto, in cui chi agisce è responsabile degli effetti delle sue azioni quale sia il ruolo che esercita; il ruolo politico di chi agisce non può essere apprezzato dal giudice, ma è riservato ad un organo politico, nel caso al Senato, che a sua volta non è chiamato a giudicare se un certo comportamento possa presentare gli estremi del reato (questo compete al giudice), ma se esso sia politicamente giustificato (questo ragionamento è sviluppato nelle pagg. 12-15 dello scritto del Tribunale).
Per valutare se vi siano gli estremi di reato – e in particolare del reato di sequestro di persona, aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale, dall’abuso dei poteri, e dall’averlo commesso anche in danni di minori – il Tribunale compie una minuziosa ricostruzione degli eventi, che occupano le pagg. 4-6, e del complesso quadro normativo vigente che disciplina le procedure di sbarco (pagg. 6-12). Perché la forzosa permanenza dei migranti sulla Diciotti costituisca un reato è poi spiegato con argomenti stringenti relativi alla limitazione della libertà personale: essi richiedono una puntuale ricostruzione degli atti compiuti e del c.d. “elemento soggettivo”, ossia la consapevolezza in chi agisce di provocare una restrizione della libertà delle persone colpite e della “antigiuridicità” della propria azione (pagg. 15 ss.). Merita osservare che il Tribunale insiste in particolare a individuare gli “atti” del Ministro: ciò che gli si imputa è la deliberata omissione dell’indicazione del POS (porto sicuro), che le norme internazionali impongono come adempimento immediato dello Stato “di primo contatto”. Appare apprezzabile come il Tribunale cerchi di accertare gli esatti estremi della condotta imputabile al ministro nell’ambito di vicende lunghe e complicate, ampiamente informali, che hanno caratterizzato l’episodio “Diciotti”: si tratta infatti di capire a quale atto debba essere fatto risalire il reato, e questo è individuato in una “precisa direttiva” del ministro indirizzata alle strutture ministeriali di non indicare il POS e impedire così lo sbarco (pagg. 26-28), senza invocare le giustificazioni ammesse dalle norme vigenti ma per esclusive “finalità politiche”, cioè attendere una decisione a livello europeo (pagg. 28-38).
Qui si colloca il punto cruciale del ragionamento (pag. 38 ss.): dal punto di vista penale, la limitazione della libertà personale può essere giustificata solo se il pubblico ufficiale agisca nell’ambito di poteri conferiti dalla legge: posso essere arrestato dalla polizia solo nelle ipotesi e nei limiti previsti dalla legge, dato che la violazione del mio diritto di libertà si giustifica perché necessaria per l’interesse generale alla sicurezza pubblica. Lo sbarco di 177 stranieri non avrebbe comportato nessuna presumibile lesione della sicurezza collettiva, ma era stato disposto per finalità che non c’entravano nulla con i tipi di interesse collettivo che giustificano la limitazione della libertà personale. Pur essendo interessi forse apprezzabili in sede politica (e di questo si deve occupare il Senato), non rientrano nei “limiti” previsti dalla legge per un uso legittimo dei poteri repressivi. Il passaggio chiave si trova a pag. 42: il ministro ha agito al di fuori delle finalità proprie dell’esercizio del potere conferitogli dalla legge e in violazione degli obblighi internazionali. E’ come se io venissi arrestato, non perché minaccio la gente con le armi in mano, ma per costringere il ministero a ridiscutere l’affollamento delle carceri. Non ne sarei contento.
L’ultimo punto affrontato dai giudici catanesi (pagg. 43 ss.) è se la decisione di Salvini possa essere qualificata come atto politico. Cosa sia un atto politico è questione teorica dibattuta da sempre. Correttamente i giudici osservano, seguendo la giurisprudenza della Corte costituzionale, che si possano considerare politici – e quindi non sindacabili dai giudici, in deroga al principio di legalità – soltanto gli atti che esprimono l’autonomia degli organi costituzionali (per es., ragionando del governo, l’adozione di un decreto-legge, la presentazione di un disegno di legge, la decisione di porre la questione di fiducia, ecc.). L’insindacabilità degli atti politici deriva dalla necessità di porre il potere esecutivo al riparo dal potere giudiziario (sono i giudici a dirlo!), ma cessa di fronte ad atti che incidano negativamente sui diritti delle persone: questi sono necessariamente sindacabili dai giudici, perché ci vanno di mezzo i nostri diritti e libertà (pag. 46). L’atto è politico se e perché non ha effetti lesivi per le persone: per cui gli effetti lesivi della decisione di Salvini nel caso Diciotti sono la dimostrazione che non si può trattare di un atto politico.
Altra questione è se il Senato possa negare l’autorizzazione a procedere, ritenendo che Salvini abbia agito “per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”. Lo può fare, lo prevede la legge costituzionale. Ma con tre precisazioni:
a) che se il Senato vieta l’autorizzazione questo non trasforma l’atto in questione in un “atto politico”: semplicemente per quell’atto l’autorità politica vieta all’autorità giudiziaria la possibilità di procedere processualmente;
b) che se il Senato vieta l’autorizzazione, questo non “sana” il comportamento del ministro: resta un comportamento penalmente rilevante e resta l’ipotesi che costituisca un reato grave; semplicemente si vieta ai giudici di svolgere l’accertamento giudiziale del reato e, nell’eventualità, di pronunciare la condanna;
c) che se il Senato vieta l’autorizzazione, si assume la responsabilità di questa decisione davanti alla collettività. Nessuna scusa può essere invocata lamentando l’abuso degli strumenti giudiziari e l’invasione della politica. E’ la politica che decide che un’ipotesi di reato non vada perseguita nel processo penale. E’ la riaffermazione dell’immunità di cui godono gli esponenti politici, contro cui nel passato recente tanti esponenti del M5S si sono scagliati.
C’è ancora una precisazione: che il Governo e i suoi esponenti si dichiarino d’accordo sin dall’inizio con l’azione di Salvini è un bel gesto di solidarietà politica, apprezzabile in un governo di coalizione. Ma non sposta di un millimetro il quadro del problema: la responsabilità penale è personale – risponde chi ha agito – e nessuna solidarietà può cambiare i termini della questione giuridica. Perché è di questo e solo di questo che si sta parlando.
Gentile Professor Bin, la ringrazio molto per il suo limpido intervento, soprattutto a fronte di un contributo di altra fonte che, proprio su questo giornale, aveva sollevato in me notevoli perplessità.
Penso che Salvini stia facendo gli interessi dell’Italia e trovo ingiusto attaccarlo