di Fabio Ferrari
A quale titolo la Lega Nord chiede l’intervento del Presidente della Repubblica Mattarella ‘contro’ la sentenza sui fondi del partito? Cerchiamo di rispondere con la dovuta delicatezza: nessuno.
Il Presidente della Repubblica non ha alcun potere – e ci mancherebbe altro – per intervenire su un processo in corso: né personalmente, né quale Presidente del CSM, l’organo di autogoverno della magistratura.
Anche se molti esponenti politici non lo sanno, ci sono voluti secoli – e qualche testa di Re brutalmente mozzata – per arrivare a garantire costituzionalmente il principio di autonomia e indipendenza della magistratura, e soprattutto il cosiddetto ‘giudice naturale’ precostituito per legge, da cui nessuno – nessuno – può essere distolto (art. 25 Cost.). Il che significa, per fortuna di ciascuno di noi, che il giudice che ci è assegnato in un processo è scelto sulla base di criteri ‘generali ed astratti’ previsti dalla legge, prima del processo, non dopo. Nessuno dunque – nessuno – può temere di vedersi assegnato un giudice ad hoc a lui avverso per motivi politici o ideologici, ma al contempo nessuno – nessuno – può pretendere di sceglierselo sulla base delle proprie convenienze personali.
È la solita storia, a cui siamo purtroppo ben abituati, almeno a partire dall’epopea Craxi, e alla quale nessun partito – seppur con toni e gradazioni diverse – è mai riuscito responsabilmente a discostarsi: quando viene emessa una sentenza nei confronti di un politico, soprattutto se potente, suona il motivetto evergreen della ‘giustizia ad orologeria’. Il che è particolarmente grave, perché l’accusa giunge solitamente da rappresentanti delle istituzioni nei confronti di altri rappresentanti delle istituzioni, creando così un cortocircuito e una delegittimazione devastante per la tenuta complessiva del sistema.
Qui non è in discussione la ‘giustezza’ della sentenza (peraltro ancora da pubblicare: è mai possibile che non si abbia nemmeno la decenza di leggere le motivazioni di una pronuncia prima di criticarla?); né sono in discussione le legittime critiche che ciascuno di noi ha diritto di porre a questo o a quel magistrato, a questa o quella decisione, al CSM, alla magistratura in generale. È vero che in Italia l’aggettivo ‘irreprensibile’ va usato con molta cautela, anche nei confronti di un potere giudiziario non sempre all’altezza: ma ciò non toglie che prima di accusare violentemente un giudice di parzialità indebita bisognerebbe avere le prove; e in alternativa tacere.
È in gioco il senso delle istituzioni, il rispetto che si deve loro. Può essere che questi valori – e la consapevolezza della loro importanza per una comunità – non facciano parte del bagaglio di questo o quell’esponente politico: ma è un problema loro, che dovrebbero cercare di risolvere da soli, magari stimolati da un elettorato – prima di tutto il proprio – un minimo responsabile, senza arroventare un clima già incandescente.
E soprattutto senza piagnucolare davanti alla porta del Colle più alto di Roma, rischiando di mettere inutilmente in imbarazzo il suo inquilino.
La giusta difesa da una (presunta) cattiva sentenza si conduce dentro al processo, con gli innumerevoli strumenti del processo; e certo non si può affermare che in Italia manchino occasioni in tal senso: tre gradi di giudizio pressoché automatici, il divieto di reformatio in pejus della sentenza appellata (art. 597.3 c.p.p.: impugnare, cioè, non ‘costa’, perché l’imputato sa che, nella peggiore delle ipotesi, non subirà una condanna peggiorativa rispetto a quella contro cui agisce), una disciplina della prescrizione oltre al limite della vergogna (come ci ricorda la vicenda Taricco), un Parlamento popolato – almeno fino all’altro ieri – da una torma ingente di eccellenti avvocati (i quali hanno avuto, in un recentissimo passato, pure il piacere di vedere qualche loro rappresentante sedere sullo scranno del Ministero della giustizia…in governi in cui la Lega era importante azionista), una clamorosa lungaggine dei processi che certo non suona a favore delle ragioni della cosiddetta, impropriamente, ‘pubblica accusa’.
Cosa si pretende di più? Aver fatto pace con una Roma tutto d’un tratto non più ‘ladrona’ (sebbene l’art. 1 dello Statuto della Lega prescriva ancora l’obiettivo incostituzionale della secessione), epurando la parola ‘nord’ dal mitico simbolo, non significa pretendere da questa servigi che non le sono propri.
Cosa dovrebbe rispondere, legittima irritazione a parte, un Presidente della Repubblica chiamato in causa in questo modo? E il semplice cittadino x, che non ha né la visibilità, né probabilmente la forza economica e istituzionale di un grande partito, potrà domani rivolgersi al Capo dello Stato chiedendo protezione quando subirà una sentenza che riterrà – ovviamente dal suo personalissimo punto di vista – ingiusta e arbitraria?
Peraltro: cosa vuol dire, tecnicamente, sentenza ‘politica’? E giustizia ‘ad orologeria’?
Non è una questione da poco; nel mare magnum delle stupidaggini telecomandate che quotidianamente sentiamo, si tende a perdere un’abitudine importante, anzi fondamentale in qualunque contesto che pretenda di essere un minimo logico: sottoporre a vaglio critico le parole. Sentenza ‘politica’, giustizia ‘ad orologeria’… se prese sul serio non possono che avere un significato: decisione assunta dolosamente dal giudice, in spregio alle regole formali e sostanziali che disciplinano il processo, e quindi integrante – senz’altro – una qualche fattispecie criminosa. In diritto la forma è quasi sempre sostanza, e mai come in questo caso vige il principio del terzo escluso: o si tratta di una sentenza legittima (mal motivata, mal ‘istruita’… ma pur sempre legittima), e allora non resta che impugnarla per ottenere giustizia in secondo grado, come avviene per qualunque ‘normale’ cittadino; o è una sentenza frutto di un disegno criminoso, espressiva di un reato, di una vera e propria persecuzione – in senso tecnico-giuridico, non propagandistico – nei confronti dell’imputato, e allora è chiaro che i mezzi per difendersi divengono più complessi e parzialmente diversi. Tertium non datur.
Arriverà mai il giorno il cui un politico, a maggior ragione se ricoprente cariche istituzionali, invece di starnazzare comodamente davanti ai giornalisti contro sentenze ‘politiche’, troverà il coraggio di essere un minimo coerente, denunciando il magistrato autore della (presunta) criminosa sentenza, e così assumendosi concretamente la responsabilità delle parole gratuitamente pronunciate per il tramite di un microfono?
Perfino Berlusconi sentì il bisogno di agire davanti ad un giudice per accertare il supposto reato ex art. 289 c.p. («attentato ad organo costituzionale») commesso, secondo il Cavaliere, dai consueti “giudici comunisti”: questi, con le loro iniziative ‘politiche’, avrebbero provocato la caduta del suo primo Esecutivo nell’autunno del 1994. Ai giudici di Brescia competenti per il caso fu sufficiente – per archiviare il tutto – apprendere dalla vivavoce di Bossi & c. le ragioni – quelle vere, politiche sul serio – che portarono la Lega Nord a togliere il sostegno all’Esecutivo azzurro. Dunque, come era ampiamente prevedibile il tutto si concluse con un nulla di fatto, ma almeno ci fu un seguito formale alle pesantissime e gravissime accuse che l’ex Presidente del Consiglio mosse nei confronti dei giudici milanesi.
Sia chiaro: non si ha certo nostalgia delle cause tra ‘emeriti’ Capi del governo e magistratura; però, non è nemmeno tollerabile il continuo dileggio dell’organo giudicante, accusato impunemente e gravemente a favore di tubo catodico, con allegata molestia al Capo dello Stato.
E senza che nessuno abbia la decenza di assumersi – realmente, non a chiacchiere – la responsabilità del tutto. Certo, se poi esistesse un’opposizione, sarebbe tutto un po’ meno difficile.