di Salvatore Curreri
Pur nel massimo rispetto del ben più autorevole collega, mi permetto di non condividerne il pensiero. Secondo l’art. 92 Cost. “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. Da qui due conclusioni: a) il Presidente del Consiglio propone, non impone, i ministri al Presidente della Repubblica al quale b) spetta il potere di nomina.
Di contro, il Presidente della Repubblica, nel valutare tali proposte e nell’esercitare il suo potere di nomina, non gode di una discrezionalità assoluta, perché :
a) il Governo da lui nominato “deve avere la fiducia delle due camere” (art. 94 Cost.)
b) i ministri devono avere la fiducia del Presidente del Consiglio, perché a questi spetta mantenere “l’unità di indirizzo politico ed amministrativo [del Governo], promuovendo e coordinando la attività dei ministri”
È quindi tra questi due poli opposti che il potere di nomina del Presidente della Repubblica va esercitato. Egli non esercita un potere politico perché non ne ha la legittimazione. Non è il Re che, in epoca statutaria, nominava il proprio Governo che doveva poi ottenere la fiducia delle camere (parlamentarismo dualista). Noi siamo in un sistema parlamentare monista in cui il Governo deve avere la fiducia non del Presidente della Repubblica ma del Parlamento. Parlamento espressione della sovranità del popolo (art. 1 Cost.), espessa nel voto (art. 48 Cost.) attraverso i partiti politici (art. 49 Cost.)
Nella nostra forma di governo, però, il Presidente della Repubblica non ha un ruolo semplicemente onorifico. Egli è il garante del rispetto della Costituzione. Se attenta ad essa (art. 90 Cost.), ne risponde dinanzi alla Corte costituzionale (art. 134 Cost.) Nella nomina dei ministri, quindi, Il Capo dello Stato, quindi, è chiamato a percorrere uno stretto sentiero, tanto che di atto complesso, a quel che mi risulta, ma migliore dottrina costituzionalista ha parlato in riferimento alla nomina del Presidente del Consiglio, e non a quella dei ministri. Da un lato non è un mero notaio chiamato a ratificare le proposte del Presidente del Consiglio. Dall’altro, non può ingerirsi in modo indebito su scelte politiche che competono al Presidente del Consiglio incaricato, espressione della maggioranza di governo che lo sostiene.
Poiché, come visto, il dettato costituzionale è sul punto opportunamente essenziale, è decisiva la prassi costituzionale in cui esso si è inverato. Ebbene, essa dimostra che il Presidente della Repubblica abbia rarissime volte non accolto la proposta di ministri formulata dal Presidente del Consiglio incaricati, e quando ciò è accaduto è stato sempre non per ragioni di dissenso politico, ma di opportunità sulla persona designata. Così fu nel Berlusconi I (1994) quando Scalfaro si oppose alla nomina di Previti a ministro della giustizia (poi nominato alla difesa) oppure nel Berlusconi II (2001) quando Ciampi si oppose alla nomina di Maroni sempre al ministero della giustizia (assegnato poi a Castelli). Oppure nei casi Brancheri (2010) e Gratteri (2014). Nei primi due casi, se ben ricordo, la ragione fu la stessa: si trattava di personalità a quel tempo sotto processo la cui nomina al Ministro della Giustizia si palesava, per evidenti ragioni, inopportuna. “Manifestazioni di tale fenomeno si sono avute in occasione della formazione del II gabinetto Cossiga (1980) e del gabinetto Forlani (1981) da parte del Presidente Pertini e, successivamente, per la formazione del VII governo Andreotti durante la presidenza Cossiga (1991). Di una sostanziale scelta presidenziale dei ministri si ha riscontro con la formazione dei gabinetti Amato (1992), Ciampi (1993) e Dini (1995) ad opera del Presidente Scalfaro, resa plausibile sia dall’offuscarsi della credibilità dei partiti destinati a formare le coalizioni parlamentari, sia dalla confusione creatasi nei loro rapporti reciproci” (De Vergottini, 2017).
Dinanzi a questi precedenti, è evidente che il durissimo scontro in atto sul caso Savona è inedito e gravissimo, anche se non imprevedibile, perché siamo dinanzi ad una precisa volontà delle forze politiche che hanno sottoscritto l’accordo di governo (che, mi spiace ricordarlo, non sono associazioni private non riconosciute ma gli strumenti tramite cui i cittadini partecipano alla politica nazionale). Ed è altrettanto evidente, almeno per me, che il Presidente della Repubblica poteva rifiutare la nomina di Savona a Ministro dell’Economia non per ragioni personali o professionali (che nel caso in specie non si pongono) o di dissenso politico (che, ripeto, a lui non competono) ma se ritiene che ciò vada contro Costituzione.
In definitiva il punto, alla radice è se tale nomina segni un radicale mutamento d’indirizzo politico rispetto ai governi precedenti però pur sempre nella cornice costituzionale oppure ne segni una gravissima rottura. Nel primo caso, il Presidente della Repubblica deve accettarne la nomina. Nel secondo, no. Quali sono gli interessi costituzionali in gioco cui il Capo dello Stato potrebbe appellarsi? L’appartenenza dell’Italia all’Europa; il rispetto degli impegni internazionali sottoscritti; la tutela del risparmio.
Ma, se così fosse, per coerenza se ne dovrebbe concludere che M5S e Lega sono partiti antisistema che perseguono finalità contrarie a Costituzione. Ma siamo così sicuri che la Costituzione impone un modello di politica economica? E, in ogni caso, voler ridiscutere tale modello – senza che ciò debba necessariamente implicare l’uscita dall’euro – è già di per sé eversivo dell’ordine costituzionale?
E ancora: sollevare una simile obiezione preventiva di fronte alla semplice nomina di un Ministro non è già di per sé eccessivo, se non addirittura lesivo delle competenze del Presidente del Consiglio? L’euro è un vincolo costituzionale così forte da impedire non solo che possa essere discusso (e non abbandonato) ma che non si possa nemmeno nominare un ministro che discuta con il Presidente del Consiglio se se ne possa discutere? Io ritengo che per quanto non condivisibile – e io non lo condivido affatto, sia chiaro – un radicale mutamento d’indirizzo politico riguardo alle scelte di politica economica e al rapporto con l’U.E. sia almeno sinora nell’ambito delle scelte costituzionalmente compatibili.
Ritenere incostituzionale ciò che non ci piace è un vecchio vizio che ora potrebbe coinvolgere e travolgere lo stesso ruolo del Capo dello Stato. Ciò precisato, con pari convinzione, esprimo tutto il mio appoggio e la mia solidarietà al Presidente Mattarella, oggetto di ignobili attacchi da parte di forze politiche che hanno finalmente gettato la maschera, svelando la loro cultura incostituzionale.
Perché che sia chiaro: il fatto che, a mio modesto parere, non era quella della nomina dei ministri la sede in cui il Presidente della Repubblica doveva intervenire non toglie nulla alla fondatezza costituzionale degli argomenti da lui invocati nell’esercizio del suo ruolo di garante massimo della Costituzione: l’adesione all’Unione europea (art. 11 Cost.), il rispetto degli impegni internazionali e europei (artt. 80 e 117 Cost.), la tutela del risparmio (art. 47 Cost.). Presto o tardi questi limiti sarebbero stati opposti, secondo me in occasioni più specifiche, consentendo al Presidente di meglio svolgere il suo pensiero: il rinvio motivato alle Camere delle leggi approvate (art. 74 Cost.), il diniego della sua firma sui disegni di legge e gli atti del governo (art. 87 Cost.).
Nei giorni difficilissimi che ci attendono, contro il populismo imperante, io sto con Mattarella.