di Ugo Adamo*
Lo scorso 13 novembre Giovanni Amoroso, dopo essere stato eletto il 26 ottobre dalla Corte di Cassazione, ha giurato nelle mani del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, assumendo, così, l’ufficio di giudice della Corte costituzionale. L’elezione si è resa necessaria a seguito della cessazione dalla carica del giudice Alessandro Criscuolo avvenuta l’11 novembre.
La Suprema magistratura ordinaria ha dunque adempiuto (con la massima celerità) al dovere costituzionale di eleggere un giudice della Corte e nello stretto termine di 30 giorni dalla cessazione del magistrato da sostituire, anticipandone persino i tempi: il giudice cessato dal mandato viene sostituito ad opera dello stesso organo che aveva designato il suo predecessore e dura in carica, a sua volta, nove anni. I giudici che compongono il Plenum della Corte devono essere 15 e sono così “nominati”: 5 dal Presidente della Repubblica, 5 dal Parlamento in seduta comune e 5 dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative (3 dalla Corte di Cassazione, 1 dal Consiglio di Stato, 1 dalla Corte dei Conti).
Se si saluta con favore la recente elezione, non si può tacere, d’altra parte, sulla circostanza che la Corte continua a rimanere priva della completezza del plenum (i giudici ad oggi sono 14 e non 15 come prescrive la Costituzione); infatti non è stato ancora sostituito il giudice di nomina parlamentare Giuseppe Frigo, dimessosi il 7 novembre del 2016 (più di un anno fa, dunque). Fino ad oggi per eleggere il giudice mancante, infatti, si sono svolti, senza esito positivo, cinque scrutini del Parlamento a Camere riunite, senza che l’Assemblea raggiungesse sempre il numero legale). Difficile pensare – ed infatti non lo si fà – che prima del prossimo scioglimento delle Camere per fine legislatura, queste riescano ad eleggere il nuovo giudice, visto che per l’elezione occorrono i 3/5 dei componenti l’Assemblea e quindi sono necessari 571 voti; ben più – proporzionalmente parlando – di quelli che servirebbero per approvare ciò che questo Parlamento non riesce neanche a sottoporre a votazione: ad esempio lo ius soli e/o le disposizioni anticipate di trattamento.
Ma come stiamo per vedere nihil novi sub sole.
Nel 2018 ricorrono i primi settant’anni della Carta costituzionale e già dal 1956 (anno di inizio dei lavori della Corte) – in tema di composizione dell’organo di garanzia costituzionale – il ritardo delle ‘nomine’ di derivazione parlamentare è stato costante.
In tutti questi anni, a differenza del Presidente della Repubblica e delle Supreme magistrature ordinaria ed amministrative più celeri nell’esercizio del potere loro gravante, il Parlamento in seduta comune è sempre stato in ritardo nell’espletamento del compito di eligente che costituzionalmente (e, quindi, obbligatoriamente) gli appartiene, tanto che, ormai, il suo adempiere ritardatario è divenuto notorio. Il Parlamento riunito in seduta comune, non conformandosi al principio costituzionale della leale collaborazione (R. Bin), è rimasto troppo spesso indifferente al rischio di compromettere il buon funzionamento della Corte costituzionale, in quanto solito a non provvedere all’elezione del/i giudice/i cessato/i dalla carica nei 30 giorni dettati dalla l. cost. n. 2 del 1967.
Con il trascorrere degli anni e delle Legislature si è vieppiù palesato il dato fattuale per cui i tempi della politica non sono soliti rispettare quelli costituzionali. Dal dato storico si evince chiaramente che il problema dei ritardi ha riguardato il solo Parlamento in seduta comune, anche a causa delle alte maggioranze richieste per l’elezione di ogni singolo giudice. Quest’ultima prescinde sempre dalla maggioranza semplice ovvero assoluta, ed infatti anche per gli scrutini successivi al terzo è richiesta una maggioranza che – anche se meno elevata rispetto a quelle precedenti – è pur sempre qualificata; essa è più elevata, addirittura, rispetto a quella richiesta per l’elezione del Presidente della Repubblica, almeno dopo il terzo scrutinio: «[i] giudici della Corte costituzionale che nomina il Parlamento sono eletti da questo in seduta comune delle due Camere, a scrutinio segreto e con la maggioranza dei due terzi dei componenti l’Assemblea. Per gli scrutini successivi al terzo è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei componenti l’Assemblea», così l’art. 3 della l. cost. n. 2 del 1967. Dal dato costituzionale rilevano due indicazioni: lo scrutinio segreto, che libera il parlamentare/elettore da logiche partitistiche e quindi da influenze eterodirette, e le elevate maggioranze richieste, che tendono ad escludere derive partigiane.
Queste ultime, d’altronde, sono esplicitamente rifiutate dalla Costituzione: la trasposizione in Corte dei concreti rapporti di forza parlamentari, infatti, non è prevista a differenza di quanto avviene per altri organi (I. Nicotra), ai quali non deve essere assicurata indipendenza di giudizio (si pensi alle commissioni permanenti, a quelle d’inchiesta o ai delegati regionali da designarsi per l’elezione del Capo dello Stato). La funzione di quorum così elevati è quella di spoliticizzare al massimo l’elezione ovvero di politicizzarla in modo equilibrato.
Ma è opportuno a questo punto chiedersi se il ritardo parlamentare può essere imputabile solo ed esclusivamente alle alte maggioranze richieste. Una risposta affermativa rischia di essere tacciata di miopia. La definizione dei ritardi pare piuttosto derivare dalla torsione politica a cui l’elevata maggioranza è sottoposta e dietro la quale si nascondono altre ragioni. Per comprendere la causa del continuo ritardo in cui incorre volutamente il Parlamento in seduta comune, è necessario sottolineare il fatto che questo è quasi sempre, appunto, voluto (A. Pugiotto). L’unica ragione che spinge i diversi gruppi parlamentari ad utilizzare il tempo sine die a proprio vantaggio è che più si ‘sfora’ il termine ordinatorio maggiore sarà la forza parlamentare del singolo gruppo nel portare avanti (favorendola) la candidatura da esso caldeggiata. Accrescendo il ritardo aumenta la capacità persuasiva/dissuasiva della volontà dei gruppi parlamentari. Quest’ultima aumenta quando si fa sempre più concreto il rischio di blocco dell’istituzione (il funzionamento della Corte richiede la presenza di almeno 11 giudici), dal momento in cui anche le forze minori potranno incidere sull’elezione.
Tralasciando – o comunque non prendendo in considerazione – il fatto che i componenti eletti della Corte costituzionale sono al riparo da possibili influenze del mondo politico (alta retribuzione, incompatibilità, immunità, durata del mandato, non rieleggibilità, mancanza della dissenting opinion) dal quale ‘staccano il cordone’ lo stesso giorno del giuramento quando diventano giudici alla pari di tutti gli altri, pare che ciascun gruppo parlamentare si prefigga comunque l’obiettivo di determinare o un cambio o un congelamento giurisprudenziale attraverso la tempistica della designazione (a buon fine o impedita) di magistrati che, condizionando la composizione della Corte, possano incidere sulla sua giurisprudenza. Per raggiungere tale risultato essi sono ben disposti a utilizzare tutto il tempo ritenuto necessario, finanche procedendo con ritardo enorme all’elezione.
In questo scenario, maggiore è il ritardo in cui si incorre più elevata è la possibilità di risultare ‘vittoriosi’. Ma sta proprio qui il problema: la politica non può piegare il testo costituzionale (precettivo) ai propri fini e alle proprie risultanze cercando qualcosa di «diverso da quello che si sarebbe dovuto correttamente volere» (come scriveva G. Guarino già nel 1954), ma dovrebbe essa stessa attenersi al disposto costituzionale. Ciò vale anche se si pensa che la situazione in cui la Corte è costretta a lavorare a ‘ranghi ridotti’ non è certamente meno grave rispetto a quella in cui non riesce del tutto a farlo (per il mancato raggiungimento del numero di 11 giudici presenti, la qual cosa, del resto, è già avvenuta nel 2002). Infatti, il primo valore violato da un Collegio incompleto (anche per una sola cessazione non seguita da celere elezione) è lo stesso che è alla base della previsione del quorum strutturale. La Corte non è messa nelle condizioni di espletare la sua funzione a valle di un giudizio frutto dell’apporto di tutte le (diverse e diversificate) qualità (tecnico-giuridiche, politico-istituzionali) che trovano un punto di fusione e di bilanciamento nella predisposizione della decisione a valle di un lavoro in camera di consiglio retto dal principio di collegialità.
La mancanza anche di un solo giudice (non eletto) lede il principio di completezza del plenum, cioè di un valore in sé il cui massimo rilievo è stato sottolineato, oltre che dalla dottrina (S. Panizza), anche dal Presidente emerito della Corte costituzionale Franco Bile allorquando, nel 2008 e in una sede non giurisdizionale, al fine di auspicare una sollecita nomina del quindicesimo giudice mancante, ebbe modo di affermare che «la variegata provenienza dei giudici risponde all’intento dei Costituenti di creare un organismo composito, formato da personalità appartenenti a varie categorie di operatori del diritto, per assicurare al collegio l’apporto non solo di differenti esperienze “tecniche” maturate nelle singole professioni, ma anche di diverse sensibilità culturali ed ideali. Il protrarsi nel tempo della mancanza anche di un solo giudice – pur non incidendo sulla legittimità delle decisioni […–] impedisce tuttavia al collegio di avvalersi pienamente di tale apporto previsto dalla Costituzione».
In secondo luogo, la mancanza di pluralismo nel lavoro (interno) di una Corte non completa nella sua composizione ha una ripercussione anche sulla possibile (de)legittimazione in cui potrebbe incorrere la Corte medesima, in quanto, a fronte di una mancata elezione di diversi giudici, l’eventuale assenza occasionale di altro o più componenti (fisiologicamente pur sempre possibile oltre che più che normale durante lo svolgimento di una qualsiasi attività lavorativa) potrebbe essere letta come volontà di blocco dei lavori della Corte o di dilatazione dei tempi decisori. Il rischio di pregiudizio di imparzialità sarebbe elevato benché difficile sarebbe calcolarne il grado.
Seppure l’“accusa” di aver preso una decisione diversa da quella che avrebbe potuto adottare la Corte al completo costituisce un leitmotiv non del tutto eliminabile – perché si tratta di una argomentazione pur sempre proponibile anche nei confronti di una Corte che lavori al completo (“un’altra Corte avrebbe deciso differentemente”) –, dinanzi ad una Corte incompleta (seppur vige il divieto di dissenting opinion) questa ‘accusa’ potrebbe contenere un granello di verità.
Ancora, la violazione del principio di completezza dell’organo produce delle serie problematiche sulla stessa capacità lavorativa della Corte per il sovraccarico di lavoro in una ‘composizione ridotta’ e, quindi, il possibile rischio di accumulo di arretrato, non potendosi chiedere ai giudici in carica di andare oltre il lavoro che quotidianamente è già loro richiesto per coprire anche quello che dovrebbe essere svolto da altro giudice (di cui si ritarda l’elezione).
Sempre legata alla (possibile) delegittimazione dell’organo nel sistema, non è neanche da sottovalutare il rischio di spaccature all’interno della Corte a seguito di una presidenzializzazione delle decisioni dell’organo (P. Passaglia). Tali rotture potrebbero essere favorite dall’alta possibilità che una Corte composta da quattordici giudici e che si ‘spacchi’ al suo interno richieda di addivenire ad una decisione risolutiva grazie al voto del Presidente che si esprime per ultimo e con un voto che, in caso di pareggio (in un collegio composto da 14 membri, come è quello di oggi), vale doppio; la qual cosa, protratta per un tempo prolungato, potrebbe incrinare persino il principio di collegialità dei lavori della Corte nella quale il Presidente non è un primus super pares.
I rischi attuali, dunque, per una istituzione che più delle altre è chiamata a garantire l’ordinamento costituzionale nel suo complesso, sono sicuramente di non poco spessore.
L’importanza della completezza del plenum sta nella circostanza fattuale che la questione di costituzionalità risolta sia espressione di quel principio di collegialità che assicura, alla pronuncia stessa, ponderatezza, equilibrio, saggezza, mitezza e capacità di “adeguatezza” di cui hanno bisogno, in special modo, quelle decisioni che non sono soggette a revisione (art. 137, c. 3, Cost.). Solo la presenza (completa) di tutte e tre le “anime” previste dall’art. 135 Cost. può assicurare il corretto esercizio della funzione giurisdizionale, senza privare la Corte della necessaria sensibilità politica di cui abbisogna per esercitare tale funzione in piena assonanza con la natura ibrida che le appartiene.
Non si può prescindere dalla rappresentazione (G. Zagrebelsky) della concezione che il nostro costituente ha avuto della funzione della giurisdizione costituzionale e che oggi mantiene (rectius deve mantenere grazie alla completezza del plenum) tutta la sua validità nell’aver garantito nella ratio della composizione la visione giudiziaria (la Costituzione come atto giuridico), politica (la Costituzione come documento politico) ed istituzionale (la Costituzione come nobile patto compromissorio) della garanzia costituzionale (G. Zagrebelsky-V. Marcenò; R. Romboli).
La dottrina costituzionalistica ha da tempo pensato a diverse possibili strade da intraprendere per superare la «pigrizia» (R. Pinardi) in cui sovente “cade” il Parlamento in seduta comune, e lo ha fatto in una prospettiva che è sia de iure condito sia de iure condendo: convocazione ad oltranza del Parlamento in seduta comune con obbligo di votazione continuativa; presentazione dei curricula; elezione dei giudici da parte di un organo più ristretto; avocazione del potere di nomina (da parte del Presidente della Repubblica o della Corte stessa); reintroduzione della prorogatio; abrogazione della previsione di quorum strutturale; eliminazione della quota di magistrati di estrazione parlamentare; riduzione delle maggioranze richieste. Ognuna di queste ipotesi presenta delle criticità: o perché arrivano a mettere in discussione l’ottimo equilibrio assicurato dal Costituente (minando l’equilibrio fra le tre “anime” costituzionalmente previste) o perché non paiono del tutto risolutive (nella consapevolezza che molti rimedi non riescono a bypassare il consenso che deve comunque essere ricercato e assicurato dai vari gruppi parlamentari).
Dovendo fare i conti con quanto è accaduto, e molto probabilmente continuerà a verificarsi, e pur nella consapevolezza che lo scioglimento rimane l’unico congegno istituzionale per il quale almeno il Parlamento sciolto non potrà rifugiarsi dietro un «i would prefer not to» (citazione della frase mai stancamente ripetuta dal celebre personaggio di Melville in Bartleby lo scrivano), nella prospettiva più celere e meno dilemmatica e che richiama alla responsabilità politica il Parlamento davanti ai propri elettori, il ritardo nella nomina parlamentare dovrebbe essere risolto con la convocazione ad oltranza del Parlamento in seduta comune con obbligo di votazione continuativa.
Prima che si decida in tal senso, quanto si dovrà ancora attendere?
*Assegnista di ricerca di diritto costituzionale all’Università di Catanzaro