di Roberto Bin
In alcuni canti precedenti (in particolare il canto secondo) si era dato conto della triste sorte degli executive order con cui Trump intendeva bloccare l’ingresso negli Stati Uniti a chi proviene da Stati a prevalenza islamica, provvedimenti che si sono incagliati, uno dopo l’altro (vedi anche i canti terzo e quinto), negli scogli della giurisdizione ordinaria. Il Governo ha fatto ricorso alla Corte Suprema, e questa ha emanato una decisione che non risolve il problema della legittimità degli executive order in questione, ma dispone solo qualche misura transitoria in attesa di affrontare – forse – il merito della questione in autunno. Forse, perché l’ultimo executive order sospendeva l’ingresso nel paese per un certo periodo (90 giorni per i cittadini dei paesi elencati, 120 per i rifugiati), in attesa della messa a punto di procedure di controllo degli ingressi più attente: non è chiaro da quando i termini decorrano e neppure se la questione posta alla Corte Suprema sarà ancora rilevante quando essa vorrà prendersela a carico. Sulla intricata questione dei tempi è intervenuto anche un memorandum (datato 14 giugno 2017) di Trump.
L’ordinanza della Corte suprema risulta approvata a maggioranza di 6-3 (tra i giudici dissidenti c’è anche il neo-nominato Gorsuch). Essa lascia in piedi la sospensione del provvedimento decretata dai giudici di merito nei confronti di coloro che possono vantare “una relazione credibile” con persone o enti negli Stati Uniti (“have a credible claim of a bona fide relationship with a person or entity in the United States”), mentre consente che il bando abbia effetto nei confronti degli altri cittadini stranieri, perché i giudici di merito non hanno dimostrato che l’executive order pone una difficoltà eccessiva, giuridicamente rilevante, al loro ingresso.
Ma che cos’è una “relazione credibile”? Dice la Corte che è sufficiente una “close familial relationship”, oppure avere un lavoro negli USA, l’iscrizione a un corso, un invito a tenere una lezione ecc. Ma ovviamente questo non semplifica i compiti di chi deve controllare gli ingressi negli States: quale sia il grado di parentela necessario o quale sia il livello di documentazione richiesto resta tutto da determinare. La Corte suprema si limita a indicare che le organizzazioni non-profit dedicate all’immigrazione non possono contattare gli stranieri per fornire loro assistenza per facilitare l’ingresso. Non è molto, perciò la vita di chi deve operare i controlli nei porti e aeroporti sarà parecchio complicata e il contenzioso fiorirà.