Decreto Minniti: i poteri dei sindaci
e una vaga sensazione di Far West

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di Stefania Parisi*

Il decreto legge 20 febbraio 2017, n. 14, contenente “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”, è un provvedimento dell’attuale governo di centro sinistra: è bene che questa cosa sia chiara fin da subito. Diciamo meglio: il provvedimento è stato adottato da un governo di centro sinistra (attualmente la legge di conversione ha già incassato il primo sì alla Camera) e il Ministro Minniti ha rassicurato tutti noi dalle pagine di Repubblica dicendo che “Non è una legge di destra” (ma volendo, non è ancora una legge, almeno tecnicamente, N.d.A.), rivolgendoci una serie di domande retoriche del tipo «…è di destra una legge che sottrae la definizione delle politiche della sicurezza nelle nostre città alla competenza esclusiva degli apparati, trasformando la sicurezza in bene comune e chiamando alla sua cogestione i rappresentanti liberamente eletti dal popolo, vale a dire i sindaci? È di destra un decreto che, per la prima volta nella storia repubblicana, risponde a una legittima richiesta di sicurezza con il solo strumento amministrativo, senza aumentare le pene o introdurre nuovi reati? È di destra un provvedimento che è stato scritto a quattro mani con l’Anci, con sindaci italiani che vanno da Zedda a Nardella, da Decaro a Sala?».

Al netto delle domande retoriche, della stesura corale del provvedimento da parte dei sindaci (quelli citati nell’intervista sono tutti di centro sinistra) della cui volontà il Ministro sarebbe solo mero esecutore, si tratta di un provvedimento molto discutibile nella misura in cui conferisce ai primi cittadini una serie di poteri decisamente discrezionali, della cui legittimità costituzionale, sotto il profilo delle garanzie dei diritti dei cittadini, è lecito nutrire più di un dubbio.

Il provvedimento si divide in due capi: il Capo I, rubricato Collaborazione interistituzionale per la promozione della sicurezza integrata e della sicurezza urbana, si divide a sua volta in due sezioni (Sezione I
- Sicurezza integrata; Sezione II-
Sicurezza urbana); il Capo II è, invece, rubricato Disposizioni a tutela della sicurezza delle città e del decoro
urbano. Mentre il Capo I contiene norme volte a incentivare il raccordo cooperativo tra livelli di governo, chiamando in causa il concetto di “sicurezza integrata”, il Capo II, invece, si occupa di prevedere disposizioni a tutela del decoro di particolari luoghi. In particolare, densi di problemi interpretativi sono gli articoli 9 e 10. L’articolo 9 prevede contemporaneamente una sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 300 euro e un ordine di allontanamento (dal luogo della condotta illecita) nei confronti di chiunque, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi “ivi previsti”, limita la libera accessibilità e fruizione di infrastrutture (fisse e mobili) ferroviarie, aeroportuali marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze (comma 1). A parte il dubbio sul fondamento delle previsioni recanti i divieti di stazionamento o di occupazione (“ivi previsti” non pare locuzione sufficientemente determinata), un primo problema si lega a quanto, in merito a questo comma, si specifica nella relazione illustrativa: le condotte che compromettono la fruibilità di particolari luoghi, rendendone difficoltoso il libero utilizzo e la normale e sicura fruizione degli spazi pubblici, non necessariamente integrano la violazione di legge: ciò vuol dire che l’apprezzamento circa le modalità di realizzazione della condotta sarebbe rimesso interamente al sindaco. Questo provvedimento è una sorta di Daspo. Qui basti solo incidentalmente ricordare che il Daspo (acronimo che significa divieto di accesso alle manifestazioni sportive) di cui alla legge 401/1989  è considerato una misura amministrativa e non penale, anche se fondata quasi sempre su un’informativa di reato all’autorità giudiziaria da parte delle forze dell’ordine. La misura può essere emessa:  a) nei confronti delle persone che risultano denunciate o condannate, anche con sentenza non definitiva, nel corso degli ultimi 5 anni per uno dei seguenti reati: porto d’armi od oggetti atti ad offendere; uso di caschi protettivi od altro mezzo idoneo a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona; esposizione o introduzione di simboli o emblemi discriminatori o razzisti; lancio di oggetti idonei a recare offesa alla persona, indebito superamento di recinzioni o separazioni dell’impianto sportivo, invasione di terreno di gioco e possesso di artifizi pirotecnici). b) nei confronti di chi abbia preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive o che abbia, nelle medesime circostanze, incitato,  inneggiato, o indotto alla violenza.

Il Daspo viene emesso dal questore o dall’AG (con la sentenza di condanna per i reati commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, come sopra specificati) e la sua durata può variare da uno a cinque anni, nel primo caso, o da due a otto anni, se emesso dall’AG. Il provvedimento può prevedere come prescrizione ulteriore l’obbligo di presentazione in un ufficio o comando di polizia durante lo svolgimento di manifestazioni specificatamente indicate. Tale prescrizione, comportando una limitazione della libertà personale dell’interessato, è sottoposta alla procedura di convalida del provvedimento stesso davanti al GIP competente, sulla base del luogo dove ha sede l’ufficio del questore che ha emesso il provvedimento.

Stando sempre alla relazione illustrativa del Governo, nell’ambito applicativo dell’art. 9, rientrano anche condotte come la “prostituzione con modalità ostentate” o “l’accattonaggio con modalità vessatorie o simulando deformità o malattie o attraverso il ricorso a mezzi fraudolenti” che, in senso più ampio, limitano o comunque recano disturbo alla libera fruizione di tali spazi da parte dei cittadini.

Il comma 2 sanziona con la misura dell’allontanamento anche chi – negli spazi indicati dall’articolo 1, viene trovato in stato di ubriachezza; 
compie atti contrari alla pubblica decenza; 
esercita il commercio abusivo.
La misura si aggiunge quindi alle sanzioni amministrative già previste 
dall’ordinamento (art. 688 e 726 c.p.; art. 29, D.Lgs. 114/1998).

Il comma 3 prevede l’ampliamento dell’ambito di applicazione delle misure previste dall’art. 1 ad aree urbane dove si trovino musei, ad aree monumentali e archeologiche o ad altri luoghi di cultura interessati da consistenti flussi turistici ovvero adibito a verde pubblico.

Visto da vicino, l’ordine di allontanamento, che ha una durata di quarantotto ore, sembra configurarsi come una misura di prevenzione, disposta, dunque, ante o praeter delictum. In alcuni casi, queste misure sono state assimilate dalla Corte costituzionale alle misure di sicurezza post delictum come due species di un unico genus aventi come presupposto comune quello della pericolosità sociale (sentenza n. 27 del 1957); in altri, invece, la Corte ha ritenuto non comparabili le discipline concernenti le due misure (n. 321 del 2004). Il sindaco si vede riconosciuto un potere di adottare una misura di prevenzione, sia pure temporalmente molto limitata; Attualmente, di norma, le misure di prevenzione sono adottate dall’autorità giudiziaria o dal questore. Si può solo immaginare che il potere sia esercitato dal sindaco in qualità di ufficiale del Governo nello svolgimento delle funzioni di pubblica sicurezza.

L’applicazione della misura consegue automaticamente alla commissione di illeciti amministrativi. Alcune indicazioni in tal senso provengono dalla Corte costituzionale che ha più volte dichiarato l’illegittimità costituzionale di presunzioni assolute di pericolosità sociale: così con riferimento alle misure di sicurezza (sentenze n. 1/1971, n. 139/1982, n. 249/1983, n. 1102/1988), in materia di preclusione all’accesso a misure alternative alla detenzione (sentenza n. 78/2007) e di effetti penali della condanna (n. 78/2007).

L’articolo 10 del decreto detta le modalità esecutive della misura dell’allontanamento dalle aree relative alle infrastrutture di trasporto e dalle loro pertinenze, come indicate dall’articolo 9. Nello specifico si stabilisce (comma 1) che: l’ordine di allontanamento, in forma scritta, è rivolto al trasgressore 
dall’organo che accerta la le condotte illecite; la misura inibitoria ha validità  temporale limitata (48 ore dall’accertamento del 
fatto);
 la violazione dell’ordine comporta il raddoppio della sanzione 
amministrativa pecuniaria originaria (cioè quella prevista dall’art. 9, 
comma 1); il provvedimento vada trasmesso al questore competente nonché, ove necessario, alle competenti autorità sociosanitarie locali.

Non si dice alcunché circa l’obbligo di motivazione del provvedimento.

La recidiva nelle condotte illecite di cui all’art. 9 (limitazione della libera accessibilità delle infrastrutture di trasporto, ubriachezza, commercio abusivo) – ove ne derivi un pericolo per la sicurezza – comporta la possibile adozione di un divieto di accesso ad una o più delle aree espressamente indicate per un massimo di sei mesi; il provvedimento, adeguatamente motivato, è adottato dal questore e ne individua le più opportune modalità esecutive compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del trasgressore (comma 2). Tale ultima misura è modellata sul già citato Daspo nelle manifestazioni sportive di cui all’art. 6 della legge 401 del 1989 (come evidenziato nella stessa relazione illustrativa del Governo): tuttavia la fattispecie prevista dall’art.  10, comma 2, non presuppone una condanna penale né la presentazione di una denuncia (per i casi di ubriachezza, commercio abusivo, atti contrari alla pubblica decenza) .

Una durata maggiore del divieto di accesso (da sei mesi a due anni) è prevista dal comma 3 quando le condotte vietate sono commesse da un condannato negli ultimi cinque anni, con conferma della sentenza almeno in secondo grado, per reati contro la persona e il patrimonio. Se l’interessato è un minore va data notizia della misura alla procura presso il tribunale dei minorenni. Il comma 4 prevede l’applicazione, ove compatibile, della disciplina del DASPO di cui all’art. 6 della legge 401/1989 in materia di notifica del provvedimento (comma 2-bis), obbligo di presentazione agli uffici di polizia (comma 3) e ricorribilità in cassazione (comma 4). Ne consegue, in particolare, anche per la maggiore invasività della misura inibitoria, il controllo dell’autorità giudiziaria ai fini della convalida.

Credo sia abbastanza evidente che concetti come il decoro, la pubblica decenza, la sicurezza debbano essere maneggiati con cura: all’aumento del sistema dei limiti corrisponde, necessariamente, una contrazione dello spazio per l’esercizio di un diritto. Così,  se questi concetti vengono rimessi al metro di un primo cittadino, per quanto costui possa essere un amministratore illuminato, ne potranno derivare conseguenze perverse. Innanzitutto, le decisioni sindacali contengono un alto tasso di discrezionalità: rispetto a esse, il destinatario non potrà difendersi. Si potranno, inoltre, verificare discriminazioni (non solo tra gli stranieri e/o le fasce sociali già deboli ma anche) tra cittadini residenti in luoghi diversi del Paese perché ciascun sindaco potrà decidere di innalzare o restringere il livello di sicurezza in relazione alle esigenze e agli standard da garantire nel territorio amministrato. È naturale, cioè, che il Sindaco di Napoli, avendo problemi di ordine pubblico di gran lunga superiori rispetto a quelli del comune di Vipiteno, probabilmente non applicherà mai la misura dell’allontanamento a ipotesi – faccio per dire – di accattonaggio con modalità vessatorie. Laddove, invece, il Sindaco di Vipiteno tenderà ad allargare le maglie del potere sindacale per (continuare ad) assicurare standard di vivibilità già molto alti nel comune amministrato.

Insomma, se si vuole continuare a parlare per slogan, diciamo pure che “sicurezza è una parola di sinistra”. Ma se vogliamo ragionare in termini di tutela dei diritti individuali, di principio di legalità e di eguaglianza tra i cittadini, forse è ora di dismettere l’icona del sindaco-sceriffo di contea e di indossare i panni di chi vive l’emarginazione e il disagio sociale. Per definizione, gente indecorosa…

* Università Federico II, Napoli

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