di Roberto Bin
Nella causa C-157/15, la Grande sezione della Corte di giustizia ha emanato una sentenza che ha subito suscitato l’attenzione della stampa, che l’ha così riassunta: se un’impresa privata licenzia una dipendente musulmana perché indossa il velo, non viene leso il divieto di discriminazione. Sono subito divampati commenti entusiastici o scandalizzati, ma forse bisogna leggere con attenzione ciò che la Corte di giustizia ha effettivamente scritto.
La sentenza distingue tra discriminazione diretta e discriminazione indiretta.
Si ha discriminazione diretta (art. 2.2, lett. a), della direttiva 2000/78) quando una persona è trattata meno favorevolmente rispetto agli altri a causa delle sue convinzioni politiche, religiose, le inclinazioni sessuali, gli handicap ecc. Ciò non si verifica in questo caso, poiché la ditta, che fornisce servizi di sorveglianza e sicurezza, nonché servizi di accoglienza a diversi clienti del settore sia pubblico che privato, ha una norma del regolamento aziendale (approvato però dopo che la dipendente aveva comunicato l’intenzione di indossare il velo, anche se la regola non scritta vigeva da tempo) che pone il divieto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose. È quindi una regola generale, non rivolta in particolare alla dipendente in questione o ai simboli che essa vuole indossare. Per anni la dipendente si è presentata senza indossare il velo, e quando ha iniziato a farlo conosceva perfettamente l’esistenza di questa regola aziendale.
C’è però da considerare se l’obbligo apparentemente neutro comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia. Si tratterebbe di una discriminazione indiretta (art. 2.2, lett. b) della direttiva), che si verifica quando una norma o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia, sempreché non siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Spetta al giudice belga valutare la situazione di fatto e cogliere quindi gli eventuali indizi di una discriminazione indiretta. Ma, dice la Corte, in linea generale “occorre rilevare che la volontà di mostrare, nei rapporti con i clienti sia pubblici che privati, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa, deve essere considerata legittima”; vietare simboli identitari è un criterio “idoneo ad assicurare la corretta applicazione di una politica di neutralità, a condizione che tale politica sia realmente perseguita in modo coerente e sistematico”; infine il divieto può essere considerato necessario se interessi unicamente i dipendenti che hanno rapporti con i clienti.
Questa è un’apertura importante: la dipendente svolgeva funzioni di receptionist, per cui a contatto con il pubblico; ma spetta al giudice di merito “verificare se, tenendo conto dei vincoli inerenti all’impresa, e senza che quest’ultima dovesse sostenere un onere aggiuntivo”, sarebbe stato possibile per la ditta proporle un posto di lavoro che non comportasse un contatto visivo con tali clienti, invece di procedere al suo licenziamento.
In conclusione, “spetta al giudice del rinvio, alla luce di tutti gli elementi del fascicolo, tenere conto degli interessi in gioco e limitare allo stretto necessario le restrizioni alle libertà in questione”. Per cui non è affatto detto che per la signora Samira Achbita la partita sia definitivamente persa.