di Andrea Guazzarotti*
Contro la volontà del suo Paese d’origine, il 9 marzo è stato riconfermato nella carica di Presidente del Consiglio europeo il polacco Donald Tusk, che potrà così ‘completare’ il mandato per altri due anni e mezzo, come già riuscì al precedente Presidente eletto, il belga Herman Van Rompuy. Sembrerà strano, ma si può diventare Presidente dell’organo più “intergovernativo” di tutti nell’UE (composto dai Capi di stato e di governo degli Stati membri) non solo senza bisogno di essere un capo di stato, ma anche senza il supporto del proprio Stato. L’art. 15 del TUE, infatti, parla solo di un Presidente eletto a maggioranza qualificata dai membri del Consiglio europeo e dell’incompatibilità del Presidente, una volta eletto, con qualsiasi mandato nazionale. Si tratta di una novità introdotta dal Trattato di Lisbona a partire dal 2009, che innova la precedente prassi della presidenza a turno ogni sei mesi (regola tuttora vigente per il Consiglio dell’UE, composto dai ministri degli Stati membri volta a volta competenti nella materia all’ordine del giorno).
Tale innovazione avrebbe dovuto contribuire a fare del Consiglio europeo un’istituzione dell’UE a tutti gli effetti e non un mero summit di Capi di stato o di governo, ove l’informalità della politica domina sull’esigenza di garanzie procedurali del diritto. Il problema è che il ‘capo dei capi’ non ha il peso politico di un vero capo: a confermarcelo sta proprio la rielezione di Tusk. Se, infatti, alla prima elezione, il polacco Tusk (così come il belga Van Rumpuy nel 2009) era il primo ministro del proprio Stato, eletto dai propri ‘pari’, alla rielezione egli gode della sola legittimazione della scelta dei “veri” Capi di stato o di governo (tuttora alla guida dei propri Stati membri). Il governo polacco in carica (di colore opposto a quello di Tusk) ha, così, avuto gioco facile a parlare di “uomo di fiducia della Merkel”, per stigmatizzare la natura eterodiretta della scelta. Si dirà che le nuove regole di Lisbona contemplano la decisione a maggioranza e che già il Presidente della Commissione Junker e l’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la sicurezza, Mogherini, sono stati eletti senza l’unanimità (col voto contrario di Regno Unito e Ungheria, il primo, e della Lituania, la seconda).
È la politica, bellezza! Ossia: tanto più l’UE si politicizza e tende ad assomigliare a una forma di governo (vedi la pseudo elezione diretta del Presidente della Commissione), tanto più è facile l’insorgenza di opposizioni da parte dei Governi nazionali, specie quelli ostili al “superstato” europeo. Tuttavia una differenza salta agli occhi: sarebbe stato mai concepibile eleggere Presidente della Commissione e Alto rappresentante con l’espressa opposizione del proprio Paese d’appartenenza? Vero è che un membro della Commissione (compreso il suo Presidente) o lo stesso Alto rappresentante, sponsorizzati dal proprio Governo nazionale all’atto della designazione, non sono affatto tenuti a dimettersi una volta quel Governo nazionale cada a seguito di elezioni nazionali democratiche, né il nuovo Governo (per avventura, di colore politico opposto al precedente) può in alcun modo sollecitarne la rimozione. Ma, oltre al fatto che la Commissione, a differenza del Consiglio europeo, non è un organo intergovernativo bensì “eurounitario” (deve patrocinare gli interessi di tutta l’Unione e non mediare interessi dei singoli governi nazionali), resta il dato dell’impossibilità di imporre a uno Stato la nomina di un membro della Commissione non voluto dal Governo nazionale. Avrebbe mai potuto essere designato Romano Prodi a Presidente della Commissione se a Roma fosse stato in carica il secondo Governo Berlusconi?
La depoliticizzazione del Presidente del Consiglio europeo può comprendersi, in parte, se si guarda ai suoi poteri, che sono più di natura di mediatore che non di ‘guida’: convocare le riunioni del Consiglio minimo due volte a semestre, presiederle e animarne i lavori, adoperandosi per «facilitare la coesione e il consenso in seno al Consiglio europeo» (art. 15.6 TUE). Non può far pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra, in caso di decisioni combattute, posto che non ha potere di voto, ed è altamente dubitabile che possa essere lui a decidere l’ordine del giorno (magari con l’opposizione della Germania e di qualche altro ‘grande’ Stato membro). Il Presidente ha una visibilità esterna apparentemente notevole, posto che dovrebbe assicurare la rappresentanza dell’Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune. Ma si tratta di una funzione in cogestione con l’Alto rappresentante. Una poltrona per due, insomma.
Come per l’Alto rappresentante e, in fondo, lo stesso Presidente della Commissione, al di là dei poteri formali attribuiti dai Trattati, conta la caratura politica del personaggio che ricopre il ruolo. Con una differenza rilevante, però: il Presidente della Commissione, dopo l’investitura, può godere del supporto politico costante del Parlamento europeo, che ne legittima i poteri e il modo d’esercizio di questi ultimi. Il Presidente del Consiglio europeo ha solo il supporto dei suoi ex pari: deve evitare di scontentarli troppo, specie quelli più pesanti. Il rischio che si corre, con una simile architettura istituzionale, è che un Presidente indebolito sia visto dall’esterno, specie dagli elettorati nazionali, come un burattino nelle mani dei Paesi più forti, finendo così per screditare l’istituzione, o meglio, vanificando il tentativo compiuto a Lisbona di dare al Consiglio europeo una patina più unionista e meno intergovernativa. Tuttavia, se si pensa al fatto che soltanto la Polonia si è opposta alla rielezione di Tusk, senza neppure ottenere il sostegno degli altri Paesi del Gruppo di Viesegrád (Ungheria in testa), possiamo anche concludere che il Presidente riconfermato abbia saputo conquistarsi la sua autorevolezza sul campo, dando dimostrazione di saper mediare tra i diversi e sempre più divergenti interessi nazionali. Sarà una dote di cui dovrà dar prova nei difficili due anni e mezzo che lo attendono, in un’Unione all’affannosa ricerca di se stessa.
* Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara
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