di Roberto Bin
L’ipocrita attesa della motivazione della Corte costituzionale nella decisione sulla legge elettorale ora è finita. Nella sent. 35/2017, la Corte ha spiegato le sue ragioni, ma chi si attendeva “direttive” su come procedere per tracciare la nuova legge elettorale è rimasto deluso. Come era prevedibile, perché la Corte è un giudice che, anche se ha accettato di derogare le stringenti regole processuali per occuparsi della “salute pubblica” (su ciò rinvio a precedenti contributi), non poteva certo avventurarsi su un terreno prettamente politico.
La Corte ha espresso un’unica “direttiva”: che l’apprezzabile intento di garantire un certo grado di “governabilità” del sistema non comporti un eccessivo depotenziamento della “rappresentatività” del Parlamento. Persino l’ipotesi di un secondo turno di ballottaggio tra liste concorrenti non è radicalmente censurata dalla Corte: “non è il turno di ballottaggio fra liste in sé, in astratto considerato, a risultare costituzionalmente illegittimo”, ma solo “le specifiche disposizioni della legge n. 52 del 2015, per il modo in cui hanno concretamente disciplinato tale turno, in relazione all’elezione della Camera dei deputati”. “L’applicazione di un sistema con turno di ballottaggio risolutivo, a scrutinio di lista – continua la Corte – dovrebbe necessariamente tenere conto della specifica funzione e posizione costituzionale di una tale assemblea”, perché il sistema elettorale “non può che esser primariamente destinato ad assicurare il valore costituzionale della rappresentatività”. Quello che la Corte censura perciò sono “le stringenti condizioni cui la legge n. 52 del 2015 sottopone l’accesso al ballottaggio” perché non adempiono a tale compito.
Quindi:
- non è il premio di maggioranza ad essere escluso, purché non provochi “un’eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa” (come stabilito dalla sentenza sul Porcellum);
- non è il sistema di ballottaggio ad essere escluso di per sé, neppure come ballottaggio tra liste;
- distorsivo del principio di rappresentatività è invece consentire che una lista possa “accedere al turno di ballottaggio anche avendo conseguito, al primo turno, un consenso esiguo, e ciononostante ottenere il premio, vedendo più che raddoppiati i seggi che avrebbe conseguito sulla base dei voti ottenuti al primo turno”. Regole del genere “riproducono così, seppure al turno di ballottaggio, un effetto distorsivo analogo a quello che questa Corte aveva individuato, nella sentenza n. 1 del 2014, in relazione alla legislazione elettorale previgente”;
- non è perciò accettabile che si trasformi “artificialmente una lista che vanta un consenso limitato, ed in ipotesi anche esiguo, in maggioranza assoluta”, perché così “il perseguimento della finalità di creare una maggioranza politica governante in seno all’assemblea rappresentativa, destinata ad assicurare (e non solo a favorire) la stabilità del governo, avviene a prezzo di una valutazione del peso del voto in uscita fortemente diseguale, al fine dell’attribuzione finale dei seggi alla Camera, in lesione dell’art. 48, secondo comma, Cost.”.
Qualsiasi altra indicazione andrebbe oltre i compiti della Corte, che non potrebbe “modificare, tramite interventi manipolativi o additivi, le concrete modalità attraverso le quali il premio viene assegnato all’esito del ballottaggio, inserendo alcuni, o tutti, i correttivi la cui assenza i giudici rimettenti lamentano”. Ma qualche piccola indicazione viene suggerita al legislatore, come, per es., “la scelta se attribuire il premio ad una singola lista oppure ad una coalizione tra liste”.
Ad essa si aggiunge un’osservazione iniziale, che pur se non è collegata ad una specifica censura, sembra inserirsi in quelle “stringenti condizioni” che rendono l’Italicum illegittimo per questa parte. A me sembra anche l’indicazione critica più interessante: “il turno di ballottaggio non è costruito come una nuova votazione rispetto a quella svoltasi al primo turno, ma come la sua prosecuzione. In questa prospettiva, al turno di ballottaggio accedono le sole due liste più votate al primo turno, senza che siano consentite, tra i due turni, forme di collegamento o apparentamento fra liste”. Non ci sono due votazioni, ma la seconda è la prosecuzione della prima: infatti “la ripartizione percentuale dei seggi, anche dopo lo svolgimento del turno di ballottaggio, resta – per tutte le liste diverse da quella vincente, ed anche per quella che partecipa, perdendo, al ballottaggio – la stessa del primo turno”. Sicché, più che un vero e proprio sistema a doppio turno con ballottaggio, la legge censurata sembra un sistema proporzionale con un premio di maggioranza in cui il ballottaggio serve “ad individuare la lista vincente, ossia a consentire ad una lista il raggiungimento di quella soglia minima di voti che nessuna aveva invece ottenuto al primo turno”.
La Corte rifiuta di censurare l’Italicum a causa del fatto che, bocciato il referendum, resti in piedi il Senato e rimanga quindi il problema della sua disciplina elettorale. Però lascia trapelare che vi sia in Costituzione un principio per cui per i due rami del Parlamento debbano avere sistemi elettorali sufficientemente omogenei da “non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare”, cioè che “i sistemi adottati, pur se differenti, non devono ostacolare, all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee”. Più che un principio costituzionale sembra però una regola di buon senso.
Nel complesso, la sentenza ci offre considerazioni serie e ben motivate, che non risolvono però il problema di scrivere la nuova legge elettorale. Le castagne dal fuoco deve cavarle la politica. E questo non occorreva che lo dicesse la Corte costituzionale, in fin dei conti.