Ecco le motivazioni integrali delle ordinanze del giudice Loreta Dorigo del Tribunale civile di Milano sui due ricorsi presentati, uno da Rosato, Dellai, Quaranta, Centinaio, Lupi e altri e quello presentato da Onida e Randazzo
ORDINANZA SU RICORSO ROSATO, DELLAI, QUARANTA, CENTINAIO, LUPI e altri
N. R.G. 2016/37657
TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO
SEZIONE PRIMA CIVILE
Nel procedimento cautelare iscritto al n. r.g. 37657/2016 promosso da:
EMILIO ZECCA
ILARIA TANI
ALDO BOZZI
CLAUDIO TANI
tutti con il patrocinio dell’avv. TANI CLAUDIO STEFANO e dell’avv. TANI ILARIA; BOZZI ALDO; ZECCA EMILIO, elettivamente domiciliati in LARGO SCHUSTER, 1 20122 MILANO presso il difensore avv. TANI CLAUDIO STEFANO
RICORRENTI
contro
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (C.F. 80188230587)
MINISTERO DELL’INTERNO
MINISTERO DELLE RIFORME COSTITUZIONALI E DEI RAPPORTI CON IL PARLAMENTO
con il patrocinio dell’avv. AVVOCATURA STATO, elettivamente domiciliati in VIA FREGUGLIA, 1 20122 MILANO, presso. AVVOCATURA STATO MILANO
ETTORE ROSATO
LORENZO DELLAI
STEFANO QUARANTA
GIANMARCO CENTINAIO
MAURIZIO EZIO LUPI
LUIGI ENRICO ZANDA
LOREDANA DE PRETIS
VITO CLAUDIO CRIMI
CRISTIAN INVERNIZZI
ROBERTO OCCHIUTO
RENATO SCHIFANI
KARL ZELLER
contumaci
UFFICIO CENTRALE PER IL REFERENDUM
RESISTENTI
Il Giudice dott. Loreta Dorigo,
a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 20/10/2016,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
Gli avv. Claudio Tani, Aldo Bozzi, Ilaria Tani ed Emilio Zecca agivano con atto di citazione notificato in data 20.6.2016, in proprio nella loro qualità di cittadini elettori, chiedendo l’accertamento del loro diritto di voto nel referendum su “ Testo di legge costituzionale approvato in seconda valutazione a maggioranza assoluta, ma non inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna camera, recante “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione” , in corso di indizione, in modo conforme a Costituzione come disposto dagli artt. 1, 3, 48 e 138 Cost., previa rimessione degli atti alla Corte Costituzionale della legge n. 352/1970, previa declaratoria che l’indizione del referendum ex art. 138 Cost. con un unico quesito bloccato su molteplici complessi di questioni non suscettibili di essere ridotte ad unità, risulterebbe gravemente lesivo del diritto fondamentale di voto degli odierni attori, in contraddizione con il principio democratico e in contrasto con il principio di libertà di voto, come disciplinato in Costituzione.
Successivamente, con ricorso ex art. 700 c.p.c. notificato in data 4.8.2016 gli attori chiedevano, in via d’urgenza, la rimessione alla Corte Costituzionale ex art. 23 legge n. 87/1953 delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nell’atto di citazione.
In sintesi, i ricorrenti allegavano che il diritto fondamentale di voto, così come attribuito e garantito dal combinato disposto degli artt. 1, 3, 48 e 138 Cost., sarebbe stato leso dalla proposizione di un unico quesito bloccato su molteplici e complesse questioni.
In sede cautelare gli odierni attori chiedevano pertanto l’immediata rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità degli articoli , 12, commi 2 e 3, 14 e 16 della legge n.352 del 1970 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), nella parte in cui non prevedono che l’Ufficio centrale per il Referendum, nell’esercizio dei poteri di verifica della legittimità e della conformità del referendum all’art.138 Cost., e non contemplano tra detti poteri anche quello di invitare i promotori a formulare quesiti in maniera separata raggruppandoli per materie omogenee, al fine di consentire il libero e consapevole diritto di voto degli elettori e nella parte in cui (all’art. 16) non prevedono che il referendum ex art. 138 Cost. si svolga su quesiti omogenei e separati.
Allegavano :
-l’ammissibilità di un’azione di accertamento e l’attualità dell’interesse ad agire degli odierni ricorrenti, alla luce dei precedenti giurisprudenziali, anche costituzionali, rinvenibili in tema di diritto elettorale (con particolare richiamo alla sentenza n. 1 del 2014, con la quale la Corte costituzionale dichiarava che il principio della libertà di voto non può essere soggetto a limitazioni;
-la violazione del principio di ragionevolezza insita “in un quesito a scelta multipla”;
-l’arbitrarietà nella scelta di procedere ai sensi dell’art. 138 Cost.;
-la giurisprudenza costituzionale aveva indicato quale elemento indefettibile la necessaria omogeneità dei quesiti referendari per l’abrogazione delle leggi ordinarie ai sensi dell’art. 75 Cost., sottolineando lo stretto raccordo esistente tra tale requisito e l’attuazione di quanto previsto dagli art. 1 e 48 Cost.; all’elettore, inoltre, doveva essere offerto un margine di scelta (Corte Cost. sent. nn. 16/1978; 28/1987; 1/2014);
-quanto al periculum, la prossimità della consultazione (medio tempore fissata per il 4.12.2016), giustifica la scelta di un rito d’urgenza e una pronta tutela del diritto di voto, che, in caso contrario, dovrebbe invece svolgersi prima della pronuncia di (in)costituzionalità sulla legge n. 352/70.
Tanto premesso, rassegnavano le seguenti conclusioni: vista la fondatezza della pretesa azionata e le ragioni d’urgenza, chiedevano rimettere tempestivamente ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale ai sensi dell’art. 23 l. 87/1953, sulla seguente questione : a) quanto all’art. 12, commi 2 e 3, e all’art. 14 della legge n. 352/1970, per manifesta violazione degli artt. 1, 3, 48 e 138 Cost. nella parte in cui non prevedono che l’Ufficio centrale, nell’esercizio dei poteri di verifica della legittimità e della conformità del referendum all’art. 138 Cost., non contempli tra detti poteri anche quelli di invitare, con ordinanza, i promotori a formulare quesiti in modo separato e raggruppandoli per materie omogenee, per consentire la libera e consapevole manifestazione di volontà dell’elettore su ognuno di essi separatamente; b) quanto agli artt. 4, 14 e 16 della legge n. 352/1970, per manifesta violazione degli artt. 1, comma 2; 3; 48; e 138 Cost., nella parte in cui non prevedono che il referendum si svolga su quesiti per materie omogenee, allorché si tratti di leggi costituzionali ovvero di leggi di revisione della Costituzione su parti e materie diverse della Carta fondamentale.
Con comparsa di costituzione e risposta depositata il 26.8.16 si costituivano la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno, il Ministero delle Riforme Istituzionali e dei Rapporti con il Parlamento, eccependo e deducendo:
-inammissibilità della domanda per carenza di un interesse attuale, avendo la Consulta ritenuto sussistente il requisito della rilevanza quando sia “individuabile nel giudizio principale un petitum separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale” (cfr. sent. Corte costituzionale n. 263 del 1994) e non essendo ammissibile un’azione con la quale venga richiesto l’accertamento in astratto del contenuto di tale diritto (cfr. Corte costituzionale sent. n. 110/2015);
-inapplicabilità al caso di specie dei principi dettati nella sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014;
-inammissibilità della domanda ex art. 700 c.p.c., in particolare per contrasto con l’art. 15, comma 3, della legge 352/1970;
-inammissibilità della domanda per contrasto con l’art. 15, commi 1 e 2, della legge 352/1970, stante l’intervenuta pronunzia di ammissibilità del referendum da parte della Suprema Corte di Cassazione;
-in ogni caso, le disposizioni sui provvedimenti cautelari, a causa della genericità dei poteri conferiti al giudice, non consentono di adottare misure che risultino vietate da altre norme dell’ordinamento e, a maggior ragione, se si tratti di norme di rango costituzionale (cosi come affermato dalla Corte costituzionale, sentenza n. 122 del 1970);
-infondatezza della domanda nel merito per carenza di fumus, non potendosi evocare sic et sempliciter il principio affermato dalla Corte costituzionale fin dal 1978 per i referendum abrogativi al referendum costituzionale;
-gli artt.75 e 138 Cost. disciplinano due istituti che svolgono un diverso ruolo nell’ordinamento giuridico;
-la stessa Corte Costituzionale, nel pronunciarsi in merito al referendum confermativo contemplato dall’art. 123, terzo comma, Cost. (Statuto regionale), escludeva la possibilità di proporre un quesito parziale, ritenendo che il referendum ivi disciplinato si riferisca alla complessiva deliberazione statutaria e non a singole sue parti, essendo la sua non omogeneità in re ipsa (cfr. sent. n. 445/2005);
-lo stesso tenore letterale del secondo e del terzo comma dell’art. 138 Cost. rende palese che il referendum ivi disciplinato si riferisce alla complessiva deliberazione parlamentare e non a singole
sue parti, come confermato dalla legge di attuazione n. 352 del 1970;
– l’Assemblea Costituente definì il referendum costituzionale “un elemento di formazione della legge costituzionale” (cfr. intervento risolutivo dell’on. T. Perassi, ivi, seduta pomeridiana del 3 dicembre 1947 p.4323);
-la peculiarità del referendum costituzionale è quella di innestarsi nella stessa procedura legislativa di revisione su cui va ad incidere, per cui il quesito referendario non rientra nella disponibilità dei promotori.
Tanto premesso, concludevano chiedendo il rigetto delle avverse domande cautelari (e di merito) perchè inammissibili ed infondate in fatto ed in diritto, con vittoria delle spese di lite.
Disposto un primo rinvio di udienza al fine di ottenere prova del perfezionamento del procedimento di notificazione del ricorso in favore dei componenti del Comitato referendario, ed un secondo rinvio, con assegnazione di termini per il rinnovo della notifica in favore del resistente Occhiuto Roberto, parti ricorrenti, preso atto delle osservazioni formulate dal giudicante, dichiaravano di rinunciare alla domanda formulata nei confronti dell’Ufficio Centrale per il Referendum; si procedeva quindi alla discussione, all’esito della quale il giudicante riservava la decisione.
All’esito della trattazione osserva il Tribunale che il ricorso proposto è infondato e deve essere rigettato per le ragioni di seguito esposte.
Corre l’obbligo di ricordare che la presente domanda cautelare è stata dispiegata dagli odierni ricorrenti in corso di causa.
La domanda di merito formulata nel procedimento principale ha ad oggetto l’accertamento del diritto di voto degli attori elettori -sotto lo specifico profilo delle modalità di estrinsecazione del diritto stesso- in relazione al referendum costituzionale pubblicato sulla G.U. 15/4/2016 n.88 (“Testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna camera recante:<<disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della costituzione”), diritto da esercitarsi, in applicazione di quanto previsto dagli artt. 1, 3, 48 e 138 Cost., su “quesiti non bloccati su molteplici complessi di questioni”, il tutto previa remissione alla Corte Costituzionale ai sensi dell’art. 23 legge 87/1953 delle questioni incidentali di costituzionalità degli artt. 12, commi 2 e 3, e art. 14 legge 352/1970 per violazione degli artt. 1, 3,48 e 138 Cost. nella parte in cui non prevedono che l’Ufficio Centrale nell’esercizio dei poteri di verifica della legittimità e della conformità del referendum all’art. 138 Costituzione non contemplano tra i poteri anche quelli di invitare con ordinanza i promotori a formulare quesiti in modo separato, raggruppati per materie omogenee, al fine di consentire la libera e consapevole manifestazione di volontà dell’elettore su ognuno di essi separatamente, nonché degli artt.4, 14 e 16 legge n.352/1970, per violazione degli arti.1, comma due, 3 , 48 e 138 Costituzione nella parte in cui non prevedono che referendum si svolga esclusivamente su quesiti per materie omogenee allorché si tratti di leggi costituzionali.
Con ricorso cautelare in esame i ricorrenti, preso atto, che medio tempore i mezzi di comunicazione avevano dato conto dell’imminente fissazione della data di inizio delle operazioni referendarie, infine indette per il 4.12.2016, chiedevano ex art. 700 c.p.c. la remissione ex art. 23 legge 87/1953 in via d’urgenza alla Corte Costituzionale delle questioni di legittimità costituzionale dedotte in atto di citazione.
L’esame delle questioni sollevate non può che iniziare dalle eccezioni formulate in rito dall’Avvocatura.
Quanto all’eccezione formulata da parti resistenti di carenza di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. in ordine alla domanda di accertamento -rectius: di accertamento costitutivo- dispiegata nel merito ritiene il giudicante di condividere le allegazioni dispiegate in tema dai ricorrenti.
Si condivide l’armonico orientamento espresso dalla C.S. e dalla Corte Costituzionale in ordine alla sussistenza di un permanente interesse ad agire in materia elettorale in capo ad ogni cittadino elettore laddove deduca anche solo sotto il profilo di dubbio o incertezza oggettiva circa l’esatta portata di diritti ed obblighi scaturenti da un rapporto giuridico di fonte legale, una situazione di potenziale ingiusto pregiudizio non evitabile se non attraverso il richiesto accertamento giudiziale della concreta volontà della legge (cfr. Corte Costituzionale n. 1/2014, Cass. nn. 8878/2014; 12060/2013; 13556/2008; 4103/1982).
Il diritto di voto, che va affermato ed esercitato con pienezza espressiva dei valori costituzionali, diretta espressione della dignità della persona, costituisce manifestazione della sovranità popolare ai sensi dell’art.1, comma 2 Cost. e costituisce diritto inviolabile e permanente dei cittadini (art.3 CEDU) i quali possono essere chiamati ad esercitarlo in ogni momento e devono poter esercitare in modo conforme a costituzione; “lo stato di incertezza al riguardo è fonte di pregiudizio concreto e cioè sufficiente per giustificare la meritevolezza ad agire in capo ai ricorrenti”.
Quanto al fatto che le parti azionano qui un petitum che non si rivela autonomo e distinto dalla questione costituzionale proposta del procedimento principale, con conseguente difetto di una pronuncia conclusiva in assenza del pronunciamento della Corte, corre l’obbligo di ricordare che è stata affermata la sussistenza del requisito della “incidentalità” anche nell’ipotesi in cui la caducazione della norma contestata porti ad una immediata ed automatica soddisfazione della pretesa azionata nel giudizio cautelare (affermazione resa in relazione al rigetto dell’eccezione di inammissibilità per difetto di incidentalità)
Tanto precisato, deve ora esaminarsi l’eccezione sollevata dalla difesa di parti resistenti, della carenza di interesse ad agire ex art. 700 c.p.c. in ragione dell’assenza di attualità del pregiudizio presentato e di difetto di strumentalità del rimedio cautelare richiesto rispetto al soddisfacimento del diritto vantato.
L’indizione medio tempore del referendum per la data del 4 dicembre 2016 consente di ritenere superata la contestazione sollevata dall’Avvocatura dello Stato in punto di urgenza cautelare.
A differente determinazione deve giungersi in ordine all’eccepito difetto di strumentalità tra la domanda cautelare proposta (immediata rimessione alla Corte costituzionale delle questioni di legittimità sollevate) e il diritto soggettivo che si intende tutelare nel procedimento principale, individuato, come sopra testualmente riportato, nel diritto del cittadino elettore referendario ad esprimere il proprio voto su singoli quesiti.
Non pare inutile ricordare che lo svolgimento del procedimento referendario è disciplinato dalla legge n. 352/1970 con perentorie scansioni temporali. La richiesta di referendum ex art. 138 Cost. deve pervenire, a cura dei promotori, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, per la valutazione di legittimità del referendum entro tre mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale; l’Ufficio Centrale per il Referendum deve decidere entro 30 giorni dalla richiesta in ordine alla conformità di essa l’art. 138 della Cost. L’ordinanza deve essere immediatamente comunicata ai soggetti istituzionali menzionati all’art. 13 legge n. 352/1970. Il referendum è indetto con decreto del Presidente della Repubblica su deliberazione del Consiglio dei ministri entro 60 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza che lo abbia ammesso. La data del referendum è fissato in una domenica compresa tra il 50º di 60º giorno successivo all’emanazione del decreto di indizione.
Costituisce fatto notorio, oltre che incontestato dagli odierni contraddittori, che tutte le operazioni elencate siano state assolte e il referendum costituzionale avrà luogo il prossimo 4 dicembre 2016.
A contrasto dell’avversa eccezione i cittadini elettori argomentavano che i termini descritti all’ art. 15 della menzionata legge non dovevano intendersi come termini perentori, ragione per cui -considerata “la natura strettamente politica di indizione del referendum”- quegli stessi termini potrebbero, in tesi, essere oggetto di provvedimenti di rinvio adottati dai competenti organi istituzionali nell’esercizio di poteri politici “discrezionali per opportunità politica”; deducevano altresì che l’interesse ad agire in sede cautelare deve ritenersi permanente anche in assenza di inibitoria del procedimento referendario, proprio perché dal passaggio delle norme censurate in sede costituzionale potrebbero discendere “effetti positivi per tutti”.
E’ noto che il ricorso d’urgenza è subordinato alla sussistenza di una serie di presupposti, da dimostrarsi a cura del ricorrente (periculum in mora, fumus boni iuris, irreparabilità, gravità ed imminenza del danno, atipicità e sussidiarietà del tipo di tutela richiesta).
Fino alla riforma del 2005, il ricorrente era tenuto ad indicare a pena di inammissibilità anche la causa petendi e il petitum (mediato e immediato) del successivo e necessario giudizio di merito: oggi, atteso l’allentamento del vincolo di strumentalità tra il ricorso d’urgenza e l’azione di merito, evincibile dall’art. 669 octies, comma sei, c.p.c., si discute sulla necessità che il primo debba contenere in modo rigoroso gli estremi della seconda.
La risposta non può che essere positiva.
L’orientamento comune, cui questo giudicante aderisce, è che l’individuazione dei caratteri dell’azione di merito deve in ogni caso correlarsi alla perdurante esigenza di dar conto della sussistenza del fumus boni iuris, requisito evidentemente funzionale alla situazione giuridica soggettiva di cui si domanda una tutela anticipata ed urgente, anche in ragione della pacifica applicabilità al ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. degli artt. 669-bis e ss. c.p.c.
Ne deriva che l’individuazione dell’azione di merito mantiene ancora oggi rilievo imprescindibile, costituendo il parametro per la determinazione del Giudice competente ad autorizzare il provvedimento ex art. 700 c.p.c.; a ciò consegue l’inammissibilità delle istanze cautelari che non contengano una chiara e univoca precisazione del petitum e della causa petendi dell’azione di merito che potrà essere eventualmente instaurata.
L’esame del caso, in applicazione dei principi evocati, non può che muovere dalla dispiegata domanda di merito, al fine di verificare l’ammissibilità del rimedio giudiziale esperito sotto il profilo della necessaria strumentalità dello stesso rispetto alla definitiva tutela nel merito del diritto azionato.
Ponendo ordine nelle non sempre lineari argomentazioni di parti ricorrenti ed avuto riguardo a quanto puntualizzato in sede di udienza, si evince, tuttavia, che il vero rimedio “cautelare” avuto di mira dagli interessati, non è da identificare nella rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, mero strumento mediato all’ottenimento del vero risultato, ossia ottenere un provvedimento di sospensiva/revoca delle operazioni referendarie per iniziativa delle stesse Autorità apicali dello Stato, funzionale alla tutela della prospettata lesione del diritto di voto, il cui fumus è dato, in tesi attorea, dalla inammissibilità ex art. 138 Cost. di una proposta di revisione costituzionale non puntuale, ma avente ad oggetto più articoli o finanche più materie, e comunque dalla necessità che il quesito referendario sia scomposto in molteplici singole ed autonome domande, quanti sono gli articoli della Costituzione interessati dalla revisione.
E’ noto che attraverso la riforma dell’ art. 669 octies c.p.c., come modificato dalla legge n. 80/2005 e dalla legge n. 69/2009, si è introdotto nell’ordinamento la cosiddetta attenuazione, definita anche “allentamento”, del vincolo di strumentalità cautelare tra provvedimento richiesto in via d’urgenza e la tutela di merito a cognizione piena di quello stesso diritto.
Per effetto della modifica così introdotta è stata svincolata l’efficacia di alcuni provvedimenti cautelari dall’instaurazione ed alla prosecuzione del giudizio di merito. A mente degli artt. 669 octies e decies c.p.c., l’inibitoria cautelare può durare indefinitamente nel tempo, salva la possibilità di chiedere la modifica o la revoca del provvedimento in questione ove si verifichino mutamenti nelle circostanze o si alleghino fatti anteriori di cui si acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare e, ciò, indipendentemente dall’instaurazione del procedimento di merito. Per tale ragione i provvedimenti in questione vengono definiti come provvedimenti ad efficacia indefinitamente protratta. Ciononostante trattasi di provvedimenti che conservano un carattere provvisorio, rimanendo pur sempre soggetti a caducazione o assorbimento da parte della sentenza di merito, al pari di tutti i provvedimenti cautelari; ai sensi dell’art. 669 novies c.p.c. la durata potenzialmente indeterminata della tutela accordata in via cautelare, resta pur sempre affidata a provvedimento dotato di vita “provvisoria” in quanto, oltre a essere assoggettato all’azione di revoca o modifica, può essere travolto dal provvedimento definitivo principale, in attesa o in vece del quale è stato emanato e dal quale è funzionalmente preordinato; in altri termini, il ravvisare una strumentalità attenuata o debole del procedimento cautelare rispetto al procedimento di merito va interpretato con esclusivo riferimento alla potenziale stabilità di fatto del provvedimento cautelare che resta pur sempre un elemento accidentale ed estrinseco, dipendente dall’inerzia delle parti in ordine all’esplorazione del successivo giudizio di merito ed è comunque soggetto a caducazione per effetto delle azioni, sempre possibili, di revoca o di modifica di esso. Per tale ragione si parla di instabilità in diritto della tutela cautelare, da un lato potendo sempre il provvedimento essere rimesso in discussione dalla successiva pronuncia di merito (nonchè all’accoglimento dell’istanza di revoca o modifica successive), di talché si sostiene che l’autonomia della misura cautelare sia solo di tipo cronologico e non anche di tipo funzionale. Non può infatti ignorarsi che la migliore dottrina e la miglior giurisprudenza valorizzano una nozione di tipo “funzionale” della strumentalità cautelare, ritenendo che la riforma legislativa sopra richiamata non abbia fatto perdere ai provvedimenti di cui all’art. 669 nonies c.p.c. comma sei, la loro natura cautelare, avendo unicamente comportato un allentamento della tradizionale, stretta e rigida “concatenazione temporale” tra procedimento cautelare e giudizio di merito (tanto da esser stati definiti provvedimenti cautelativi a concatenazione temporale debole).
Precisata dai ricorrenti nei termini sopra indicati domanda di merito e domanda cautelare, deve dunque verificarsi l’esistenza del necessario vincolo di strumentalità cautelare e, nello specifico, se la rimessione della questione di legittimità costituzionale sollevata risulti funzionale ad impedire la dedotta lesione del diritto elettorale esercitabile dai ricorrenti in sede referendaria.
Fatta applicazione dei principi evocati al caso in esame la determinazione non può che essere negativa.
Occorre infatti porre mente al fatto che lo svolgimento delle operazioni di referendum costituzionale devono svolgersi all’interno di scansioni temporali delimitate da termini perentori, predeterminati a mente dell’art. 15, commi uno e due, legge n. 352/1970 (tanto da essere legislativamente ammesso il rinvio di operazioni oltre i termini assegnati al solo fine di consentire l’abbinamento di un referendum già indetto con quello eventualmente proposto in relazione ad altra legge di revisione costituzionale).
Com’è noto, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha individuato nel 4/12/2016 la data per lo svolgimento delle operazioni elettorali referendarie. È di palmare evidenza che la rimessione della questione di legittimità costituzionale proposta, non potrebbe portare ad una pronuncia della Corte in termini utili per incidere sul compimento delle operazioni di voto, data la necessità del rispetto dei tempi processuali normativamente assegnati per l’avvio del procedimento valutativo innanzi alla Corte Costituzionale.
L’eventuale accoglimento del rimedio cautelare richiesto si rivela, dunque, non funzionale all’assolvimento dei fini espressamente perseguiti dalla tutela anticipatoria oggetto della domanda cautelare; ne deriva l’insussistenza del nesso funzionale tra la misura pretesa in via di urgenza dall’A.G.O. e la tutela nel procedimento principale del diritto che si assume essere leso e, finanche, come si vedrà, della strumentalità tra la stessa rimessione e il vero “provvedimento cautelare” in realtà perseguito dai ricorrenti.
Gli odierni ricorrenti evocavano, peraltro solo in sede di udienza di trattazione cautelare, l’eventualità che la Corte costituzionale, rimessa ad essa la questione, potesse avvalersi d’ufficio dei poteri di sospensione ad essa attribuiti dalla legge 87/1953 ai fini della sospensione degli atti del procedimento referendario.
Si osserva che intanto può ritenersi sussistente il collegamento funzionale tra provvedimento d’urgenza azionato a tutela del diritto che si assume essere leso in quanto sussista un collegamento diretto e immediato tra la capacità (inibitoria o satisfattiva) del rimedio richiesto in via d’urgenza e la tutela anticipatoria propria del rito cautelare azionato. Non è chi non veda che il vero obiettivo cautelare di ricorrenti, ossia la misura in grado di garantire il soddisfacimento in via anticipata e temporanea del diritto fatto valere, si identifica, in realtà, con l’adozione di un provvedimento giurisdizionale emesso da altra Autorità (Corte costituzionale), per ciò stesso, e in tutta evidenza, estraneo ai poteri di intervento della A.G. adita.
Si annota solo a margine, non competendo certo alla scrivente la valutazione dei provvedimenti ritualmente adottabili dai giudici costituzionali, che le norme invocate da parti ricorrenti (artt. 35 e 40 legge n. 87/1953) sono testualmente riferibili ad un potere di sospensione della legge esercitabile dalla Corte solo in caso di “contrasto di una legge approvata dal Consiglio regionale con gli interessi nazionali o con quelli di altre Regioni” (art. 35) o di “conflitto di attribuzione tra Stato Regione, ovvero tra Regioni” (art. 40), fattispecie non sovrapponibili a quella oggetto del presente procedimento.
Si ricorda che il potere di sospensiva, di rado invocato innanzi alla Corte, trova origine nella novella legislativa introdotta ad opera della legge n.131/2003, cd. Legge La Loggia, il cui art. 9, comma quattro, modificando l’art. 35 legge 87/1953 prevede che nel giudizio di costituzionalità in via principale, limitatamente ai casi suddetti, la Corte possa sospendere la legge impugnata qualora l’esecuzione di quest’ultima sia suscettibile di comportare rischi di un pregiudizio irreparabile all’interesse pubblico, all’ordinamento giuridico della Repubblica o di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini. Nei rari casi di esame e di applicazione della presente disposizione (cfr. ord. Corte Cost. n. 107/2010) la Corte ha avuto modo di affermare che a tali requisiti, integranti il periculum, deve accompagnarsi al requisito del fumus, analogamente a quanto avviene per i giudizi cautelari ordinari. A lato di tali requisiti, i giudici costituzionali, applicando lo stesso criterio utilizzato dal Tribunale costituzionale federale tedesco, il cd. Abwagungsmodell, hanno ritenuto di dover valutare ai fini dell’esercizio del potere di sospensiva della legge, un confronto tra le due opposte ipotesi di accoglimento e di reiezione dell’istanza di sospensiva, valutando comparativamente le conseguenze della sospensione e di quelle della mancata sospensione, ed in particolare le conseguenze derivanti dalla mancata applicazione della legge sospesa e quelle conseguenti alla continua applicazione della legge non sospesa, affermando l’ammissibilità e la fondatezza del rimedio cautelare solo qualora i danni prodotti dalla continua applicazione (qualora la legge non sospesa venga poi dichiarata incostituzionale) superino i danni derivanti dalla provvisoria sospensione (qualora la legge sospesa venga poi riconosciuta non contrastante con la Costituzione). A prescindere dai paventati profili di incostituzionalità del citato articolo 35 laddove il Legislatore configura il potere di attivazione in termini officiosi, non può non rilevarsi come nei pochi casi portati alla cognizione dei giudici costituzionali, la Corte non sia giunta, salvo che nel caso sopraccitato, rigettandolo, all’esame nel merito della questione. Non constano precedenti di accoglimento dell’istanza di sospensiva, suscettibile di manifestarsi come ipotesi assai rara per le sue gravissime conseguenze, ossia privare temporaneamente di efficacia un atto legislativo prima della conclusione del giudizio sulla costituzionalità di tale atto (giudizio che potrebbe in ipotesi non concludersi nel senso della fondatezza), e perciò determinare una conflittualità tra la Corte Costituzionale e l’organo legislativo (statale o regionale). In altri termini, il giudice costituzionale mostra di considerare il suddetto istituto come strumento da usare in casi gravissimi e presumibilmente rari, in cui un atto legislativo rischi di produrre un macroscopico pregiudizio all’interesse pubblico, all’ordinamento giuridico della Repubblica o ai diritti dei cittadini e tale rischio emerge in maniera inequivocabile. Valutati i precedenti giurisprudenziali, numericamente non elevati e conclusisi per la maggior parte dei casi con sentenza di merito in cui si dava atto dell’assorbimento dell’originaria questione cautelare nella pronuncia di merito, ovvero di non luogo a provvedere, può affermarsi che il diritto costituzionale esprime ad oggi l’intento di considerare il suddetto istituto come extrema ratio.
Quanto osservato consente di superare l’allegazione dei ricorrenti sulla necessità di adire l’A.G.O. in via strumentale, non ammettendo l’ordinamento il ricorso diretto del cittadino alla Corte Costituzionale. La domanda dei ricorrenti, pur non avendolo essi esplicitato, presuppone dunque la configurabilità di un procedimento ex art. 700 c.p.c., strumentale non già alla tutela azionabile nel procedimento principale, bensì all’ottenimento di un ulteriore e diverso provvedimento cautelare da emanarsi a cura di altra Autorità.
Ritiene il Tribunale che, da un lato, lo schema procedurale, rigido negli obiettivi funzionali perseguibili con il procedimento cautelare, non possa essere piegato al raggiungimento di risultati mediati, risultando la soddisfazione in via d’urgenza richiesta indissolubilmente connessa in via diretta con la tutela oggetto del procedimento principale. Dall’altro, l’effettivo risultato “cautelare” avuto di mira dei ricorrenti (ossia la sospensione per operazioni referendarie) cui dovrebbe provvedere la Corte Costituzionale, poggia sull’adozione di una misura priva di specifico e chiaro fondamento normativo, evocata in via meramente analogica, priva altresì di qualsivoglia significativo precedente per i diversi casi regolati dagli artt. 35 e 40 citati.
Quanto osservato caratterizza ulteriormente il difetto funzionale e diretto tra il provvedimento cautelare richiesto e l’immediata tutela desiderata dei ricorrenti.
Corre peraltro l’obbligo di sottolineare che nelle deduzioni di parti ricorrenti oggetto delle prospettata sospensione in via d’urgenza non sarebbero tanto le norme regolatrici delle operazioni referendarie e delle quali si allega l’illegittimità costituzionale, da deferire alla Corte, bensì il decreto di indizione del referendum emesso dal Presidente della Repubblica, come precisato in sede di discussione in udienza.
Ora, va ribadito che anche sotto tale profilo difetterebbe il vincolo di strumentalità cautelare.
Occorre por mente alla classificazione del provvedimento presidenziale, indefettibile presupposto al fine di valutare l’ammissibilità e la fondatezza dell’istanza di sospensiva dello stesso; pare al Tribunale di doversi affermare l’insindacabilità degli atti emanati dal Presidente della Repubblica, fatta eccezione per gli atti di alta amministrazione, nel cui novero non può ascriversi il decreto presidenziale in oggetto.
Affermavano ancora i ricorrenti in sede di discussione che la questione di legittimità costituzionale delle norme referendarie in contestazione, una volta ritenuta non manifestamente infondata dal Tribunale adito, e ritualmente sollevata innanzi alla Corte, avrebbe consentito agli organi costituzionali convenuti di intervenire sospendendo lo svolgimento del referendum.
A prescindere da qualsivoglia considerazione in ordine alla configurabilità di una “autotutela” -rimedio proprio della P.A., volto a sanare l’illegittimità degli atti amministrativi emanati, e non già alla modifica di atti politici- per atti che costituiscono estrinsecazione del potere politico/legislativo, osserva il giudicante che, in altri termini, l’effetto tutelante del provvedimento cautelare richiesto dovrebbe risolversi in una sorta di moral suasion sul Presidente della Repubblica e sui vertici del potere esecutivo e legislativo affinché, mediante l’emanazione di atti politici, rispondano alle istanze cautelari che parrebbero identificarsi, dalle precisazioni svolte in sede di udienza, nella revoca dell’indetto referendum, più che nella scomposizione della domanda referendaria in più quesiti.
Non pare al Tribunale necessario spendere molte parole in ordine alla non accoglibilità della argomentazione proposta da parti ricorrenti; la richiesta di piegare un provvedimento dell’attività giudiziaria al fine immediato di creare “pressione” sul potere politico è inammissibile.
Ritiene il giudicante vi sia una ulteriore ragione di inammissibilità del presente ricorso, dovendosi por mente, sia pure nell’angusto ambito della cognizione sommaria propria del presente giudizio, alla natura dell’organo referendario e del provvedimento dallo stesso adottato in tema di legittimità del quesito elettorale.
Richiamando l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale, e dalla stessa Corte di Cassazione, in ordine alla classificazione dell’organo e dei provvedimenti di competenza dell’Ufficio Centrale per il Referendum, pare doversi accedere alla natura giurisdizionale dell’Ufficio Centrale e dei provvedimenti dello stesso adottati (Corte Cost. sent. n. 164/2008; sent. n. 334/2004; ord. n. 343/2003).
Trattasi, invero, di organo che per composizione e struttura, si colloca in posizione di terzietà e di indipendenza rispetto alle parti, indifferente ad esse ed agli interessi trattati, volto ad esplicare un’attività diretta alla soddisfazione di interessi pubblici generali garantendo l’osservanza della legge su un piano diverso rispetto all’esercizio delle funzioni amministrative, risultando l’attività svolta funzionale al controllo ed alla garanzia del corretto funzionamento del sistema ordinamentale generale dello Stato sulla base di criteri obiettivi e precostituiti, secondo le valutazioni da ultimo espresse dal giudice amministrativo nella sentenza n. 10445/2016, pubblicata il 20/10/2016, emessa dal TAR Lazio, da condividersi, sia pure per la sola parte che qui rileva (e considerando che in quella sede veniva impugnato il Decreto del Presidente della Repubblica di indizione del referendum), ossia quella relativa alla individuazione dell’Autorità demandata alla valutazione di legittimità del quesito.
Innanzi all’A.G.A. le parti avevano “evocato questioni di illegittimità costituzionale della legge 352/1970, in ipotesi riconducibili alla predeterminazione del quesito in base all’autoqualificazione della legge, in termini di revisione costituzionale popolare nella legge costituzionale indipendentemente dal contenuto effettivo e sostanziale della stessa (la cui scelta è rimessa alla determinazione dei proponenti e della maggioranza parlamentare), e dal titolo della stessa, tenuto conto dell’art. 138 Costituzione, di cui la legge 352/1970 costituisce attuazione, e tenuto altresì conto dei principi che devono presiedere all’esercizio del diritto di voto, tra cui quelli di libero convincimento e consapevole manifestazione della volontà popolare, nonché della finalità del referendum costituzionale, volto, anche, alla tutela della minoranza parlamentare”; il giudice amministrativo aveva ritenuto che le valutazioni in punto di legittimità del quesito referendario devono intendersi esclusivamente demandate per legge al vaglio della suddetto Ufficio Centrale in sede di applicazione delle norme qui denunciate.
Ciò chiarito, deve porsi il problema -funzionale alla determinazione di ammissibilità della tutela cautelare innominata richiesta con il ricorso in esame- se, come paiono prospettare i ricorrenti, non vi sarebbe azione alcuna avverso le determinazioni assunte dall’Ufficio Centrale in punto di legittimità del quesito.
Val la pena premettere che è stata ammessa la legittimazione attiva del suddetto organo a sollevare questioni incidentali di costituzionalità innanzi alla Corte Costituzionale (ex plurimis: Corte Cost. sent. n. 278/2011, con specifico riferimento alle questioni inerenti alla legge n. 352/1970 e, in generale, si veda Corte Cost. nn. 181/200015; 126/1976). Deve poi ritenersi esperibile, in linea generale, anche il rimedio della revocazione ex artt. 391 bis e 391 ter c.p.c. delle ordinanze adottate proprio in materia di referendum costituzionale, come espresso dallo stesso organo deliberante (ordinanza Ufficio Centrale per il Referendum 11/11/2008; Corte cost. sent. n. 17/1986). In assenza di carattere contenzioso, non parrebbero, allo stato, applicabili i principi generali di rito ordinario (ad esempio attraverso una legittimazione del terzo all’intervento in sede di procedimento) in favore del cittadino elettore che deduca l’illegittimità del quesito nei termini proposti dai comitati referendari, con conseguente potenziale lesione del diritto elettorale; giova, tuttavia, ricordare che l’ordinamento riconosce a tutti i cittadini referendari, e quindi anche agli odierni ricorrenti, di raccogliere e depositare in termini le sottoscrizioni richieste ex lege per promuovere il referendum con l’inerente domanda di ammissibilità del quesito (o dei quesiti), con conseguente legittimazione all’eventuale instaurazione di un successivo procedimento costituzionale.
Le determinazioni assunte rendono dunque di ardua configurazione l’ammissibilità di un ricorso in via d’urgenza laddove gli interessati non hanno ritenuto di intervenire nelle sedi, nei tempi e nei modi demandati alla pronta tutela del diritto che assumono essere leso.
Rileva il giudicante che non possono trovare ingresso nella presente sede processuale eventuali doglianze in ordine alla corretta formulazione in concreto del quesito referendario. La decisione adottata dall’Ufficio Centrale per il Referendum riguarda, per legge, la complessiva legittimità della richiesta. Ne consegue che tale organo deve, da un lato, esaminare il tenore letterale della domanda di referendum posto dai presentatori; dall’altro, deve individuare il quesito che la legge riconnette a quella domanda, valutando la natura effettiva della legge oggetto di referendum (se legge di revisione o no), anche al di là di eventuali autoqualificazioni legislative; deve poi risolvere il problema del quesito da utilizzare per le leggi costituzionali, compito che, come ripetutamente osservato dalla C.S., deve ritenersi che mandato in via esclusiva all’Ufficio Centrale nella sua qualità di giudice della legittimità della complessiva richiesta referendaria in concreto posta.
Da ciò deriva che, da un lato, la disponibilità del quesito e, quindi, la configurazione finale della richiesta è sottratta a soggetti o organi che per il loro ruolo sono ritenuti non imparziali, o non aventi una potestà autonoma di impulso; dall’altro, sottrae un concorrente sindacato di legittimità circa la formulazione del quesito ad altri siti giurisdizionali (20/10/2016, Cass. Ufficio Centrale per il Referendum).
Solo per il caso non si intenda condividere le argomentazioni sin qui espresse, si osserva quanto segue.
Gli articoli della legge 352/1970 “Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo” denunciati sotto il profilo costituzionale degli odierni ricorrenti presentano il testo di seguito riportato: “Art. 4 La richiesta di referendum di cui all’articolo 138 della Costituzione deve contenere l’indicazione della legge di revisione della Costituzione o della legge costituzionale che si intende sottoporre alla votazione popolare, e deve altresì citare la data della sua approvazione finale da parte delle Camere, la data e il numero della Gazzetta Ufficiale nella quale è stata pubblicata. La predetta richiesta deve pervenire alla cancelleria della Corte di cassazione entro tre mesi dalla pubblicazione effettuata a norma dell’articolo 3.
Art. 12 Presso la Corte di cassazione è costituito un ufficio centrale per il referendum, composto dai tre presidenti di sezione della Corte di cassazione più anziani nonché dai tre consiglieri più anziani di ciascuna sezione. Il più anziano dei tre presidenti presiede l’ufficio e gli altri due esercitano le funzioni di vice presidente (1). L’Ufficio centrale per il referendum verifica che la richiesta di referendum sia conforme alle norme dell’articolo 138 della Costituzione e della legge. L’Ufficio centrale decide, con ordinanza, sulla legittimità della richiesta entro 30 giorni dalla sua presentazione. Esso contesta, entro lo stesso termine, ai presentatori le eventuali irregolarità. Se, in base alle deduzioni dei presentatori da depositarsi entro 5 giorni, l’Ufficio ritiene legittima la richiesta, l’ammette. Entro lo stesso termine di 5 giorni, i presentatori possono dichiarare all’Ufficio che essi intendono sanare le irregolarità contestate, ma debbono provvedervi entro il termine massimo di venti giorni dalla data dell’ordinanza. Entro le successive 48 ore l’Ufficio centrale si pronuncia definitivamente sulla legittimità della richiesta.
Per la validità delle operazioni dell’ufficio centrale per il referendum è sufficiente la presenza del presidente o di un vice presidente e di sedici consiglieri (2).
(1) Comma così sostituito dall’art. 1, D.L. 1° luglio 1975, n. 264 (Gazz. Uff. 3 luglio 1975, n. 175) convertito in legge con L. 25 luglio 1975, n. 351 (Gazz. Uff. 9 agosto 1975, n. 212). (2) Comma così sostituito dall’art. 2, D.L. 1° luglio 1975, n. 264 (Gazz. Uff. 3 luglio 1975, n. 175) convertito in legge con L. 25 luglio 1975, n. 351 (Gazz. Uff. 9 agosto 1975, n. 212).
Art. 16 Il quesito da sottoporre a referendum consiste nella formula seguente: «Approvato il testo della legge di revisione dell’articolo… (o degli articoli …) della Costituzione, concernente … (o concernenti …), approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero … del … »; ovvero: «Approvate il testo della legge costituzionale … concernente … approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero … del … ».
In estrema sintesi, parti ricorrenti, oltre a denunciare l’illegittimità del ricorso allo strumento di cui all’art. 138 Cost. come sopra evidenziato, lamentano la violazione della libertà del voto del singolo cittadino, garantita dagli artt. 1 e 48 Cost. nella parte in cui le norme referendarie pongono l’elettore di fronte all’alternativa secca tra prendere o lasciare l’intero pacchetto senza possibilità di valutazione dei diversi componenti sulla base dell’erroneo assunto che la valutazione della combinazione dei diversi contenuti sia prerogativa assoluta ed insindacabile del Parlamento, facilmente evitabile, nella tesi proposta, laddove fosse normativamente presidiata l’esigenza a che l’oggetto del referendum fosse necessariamente omogeneo, con conseguente inammissibilità di quesiti posti su molteplici questioni insuscettibili di essere ridotte ad unità, non potendosi distorcere uno strumento di democrazia diretta, qual è l’istituto referendario, in uno strumento di democrazia rappresentativa con il quale, nella sostanza, si chiedano pronunciamenti plebiscitari nei confronti di complesse scelte politiche parlamentari.
Non pare inutile ricordare che la vigente costituzione, definita “lunga e rigida”, è garantita oltre che dalla previsione di organi e procedure di controllo della conformità delle fonti normative sub costituzionali ai principi costituzionali, dalla previsione di procedimenti speciali attraverso i quali apportare al dettato costituzionale modifiche che dovessero rendersi necessarie per il mutare delle condizioni sociali e politiche nel tempo.
La funzione di revisione costituzionale è attribuita dalla Costituzione al Parlamento, mediante la previsione di un procedimento, speciale per l’oggetto normativo -leggi di revisione costituzionale, propriamente identificabili in quelle destinate a modificare il dettato costituzionale, mediante la
modifica, integrazione o soppressione di alcune parti della Costituzione, e leggi costituzionali, con ciò intendendosi quelle dirette ad attuare alcuni particolari istituti dell’attuale dettato costituzionale- e per le regole che ne scandiscono le varie fasi, regolato dall’art. 138 Cost.
Il procedimento si compone di due fasi, una necessaria, afferente l’attività svolta in sede parlamentare, ed una, solo eventuale, che vede il coinvolgimento del corpo elettorale attivato mediante l’istituto referendario. Ove la maggioranza ottenuta nelle Camere in seconda deliberazione sia assoluta (metà più uno), anziché quella di due terzi dei componenti, il testo legislativo può essere sottoposto a referendum, qualora ne facciano richiesta 1/5 dei componenti di una Camera, 500.000 elettori, ovvero cinque Consigli Regionali.
Il procedimento referendario è, dunque, meramente eventuale, di carattere sospensivo (posto che la sua indizione sospende il perfezionamento del procedimento di revisione fino al momento in cui si sia svolta la consultazione popolare con esito favorevole alla revisione stessa) di natura oppositiva, posta a tutela delle minoranze, potendo gli interessati chiedere di sottoporre a consultazione popolare un testo votato dal Parlamento -definito da parte di rilievo della dottrina come una sorta di “appello al popolo” per ostacolare una revisione costituzionale che non è riuscita a trovare un consenso anche fra le minoranze.
Proprio sotto tale profilo, valutata la natura “oppositiva” dell’istituto ed in particolare la sua funzione tutelante nei confronti di minoranze dissenzienti, dovrebbe, invero, consentirsi agli elettori di “sanzionare” con un voto diretto una riforma costituzionale approvata “a colpi di maggioranza”, ove si ritenga che la stessa abbia ingiustamente pretermesso le istanze e le osservazioni di rilievo costituzionale formulate dalla parte minoritaria.
La mancata previsione di un quorum si iscrive comunemente proprio sotto tale profilo di tutela, posto che una minoranza attiva e ben organizzata può prevalere, in assenza di soglie di sbarramento sull’entità della partecipazione al voto, su un forte astensionismo dell’elettorato dei partiti di maggioranza, proprio per tale appartenenza meno motivati alla partecipazione elettorale.
Deve dunque affermarsi che la scelta dei padri costituenti -per quanto criticata dagli odierni ricorrenti- individuava nel Parlamento l’organo deputato all’esercizio della funzione di revisione costituzionale, riservando un ruolo solo eventuale al corpo elettorale.
Condivisibile o meno che sia la scelta operata in sede di formazione della Costituzione repubblicana, non può prescindersi dalla valutazione compiuta in sede di redazione dell’art. 138 quale elemento meramente eventuale dell’intero procedimento di revisione, dovendosi prendere atto della volontà dei costituenti di riservare il potere di procedere a revisione costituzionale all’organo rappresentativo, cioè ai soggetti istituzionali appartenenti alla medesima categoria cui debbono ascriversi gli artefici del processo costituente, attribuendo al corpo elettorale un potere d’intervento del tutto eventuale e residuo; in altri termini, l’art. 138 esprime una visione della Costituzione quale patto sociale frutto di intesa tra tutte le maggiori forze politiche del Paese, destinata ad essere sostenuta, garantita, e, se del caso, modificata dalle stesse, sottraendola non solo alla libera disponibilità di ridotte maggioranze politiche contingenti, ma anche ad estemporanei interventi diretti del corpo elettorale.
L’idoneità della procedura prevista dall’art.138 Cost. a consentire modifiche ad ampio spettro del testo costituzionale è questione che la dottrina ha avuto occasione di affrontare.
Si sottolinea che la norma non presenta nel proprio testo alcun limite espresso all’esercizio del potere di revisione costituzionale, ravvisandosi, semmai, una demarcazione al successivo art. 139 che dispone che la forma repubblicana dello Stato non può essere modificata, nemmeno attraverso il ricorso allo speciale procedimento di revisione.
È stato affermato che accanto a tale unico limite espresso, la funzione di revisione costituzionale ne incontri altri, impliciti, rappresentati da quei principi costituzionali che caratterizzano il nostro ordinamento (in primo luogo il principio di sovranità popolare, al punto uno, il principio di unità indivisibilità dello Stato di cui al punto cinque e, ovviamente, i diritti inviolabili della persona di cui al punto due), quei principi, cioè, il cui sovvertimento sarebbe operabile solo attraverso un nuovo processo costituente, un nuovo patto sociale radicalmente diverso da quello da cui ha avuto origine la Costituzione repubblicana.
Tra questi principi può con ragione iscriversi quello che caratterizza il procedimento di revisione regolato dal menzionato art. 138: riserva del potere decisionale al Parlamento, necessario coinvolgimento di un arco di forze politiche più ampio di quello che si identifica con la maggioranza di governo, un ruolo secondario del corpo elettorale.
L’esistenza di “principi supremi” non suscettibili di subire modifiche nel loro contenuto essenziale, neppure da parte delle norme internazionali di cui all’art. 10 Cost., e quindi neppure attraverso un procedimento di revisione ex art. 138 Cost., è stata espressamente riconosciuta dal giudice costituzionale ( sent. nn. 1146/1988 e 366/1991).
Ne deriva che il dato testuale e l’inquadramento sistematico dell’art. 138 Cost. non consentono di accedere alla lettura offerta dai ricorrenti, frutto di un filtro eminentemente soggettivo che da tale dato prescinde.
Quanto all’evocazione della volontà dell’Assemblea costituente, in tesi di parti ricorrenti volta a configurare un procedimento di revisione “puntuale”, quindi ammissibile solo in relazione ad una sola disposizione per volta, richiede formularsi un duplice ordine di considerazioni.
Il primo, fondamentale, è dato dall’insuperabile tenore letterale della norma costituzionale, come detto, priva di limitazioni nel senso voluto dei ricorrenti. Il secondo comporta una necessaria precisazione sugli interventi svolti in tema da vari membri della Costituente, assai articolati e, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, contenenti significativi interventi dei partecipanti a favore di un intervento di revisione anche assai ampio; si veda, ad esempio, quanto sostenuto dal costituzionalista Costantino Mortati laddove prospetta una distinzione tra “revisione totale della Costituzione” e una “revisione parziale”, richiedente procedimenti meno complessi, intendendo per la prima un intervento “in cui la modificazione interessi l’assetto fondamentale dello Stato”, dicotomia che esclude in radice una possibilità di revisione costituzionale consentita solo in relazione ad un singolo, o a pochi, articoli per volta, configurando, persino, la possibilità di una revisione con un contenuto di totale stravolgimento degli assi portanti dell’ordinamento costituzionale (verbali Assemblea, art.138, 15/1/1947).
Può serenamente affermarsi che, per il caso che qui occupa, e nonostante l’indiscutibile ampiezza ed eterogeneità della riforma, tale ultima evenienza non pare ravvisabile, risultando immodificatii diritti inviolabili della persona, la natura parlamentare della Repubblica, il mantenimento di Camera e Senato (sia pure con le importanti modifiche apportate al secondo), l’autonomia del potere giudiziario (con aumentato ambito di intervento del vaglio di legittimità della Corte Costituzionale), il riconoscimento delle autonomie locali, il bilanciamento dei rapporti tra poteri.
Il distillato dei principi sovra richiamati porta ad escludere, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, che non possa procedersi legittimamente ai sensi dell’art. 138 alla revisione costituzionale per parti tra loro non omogenee.
D’altro canto, data l’irragionevolezza, per le ragioni che verranno illustrate al capitolo che segue, di una revisione del testo costituzionale portata da tanti singoli referendum quanti sono gli articoli (o le materie) oggetto di modifica, e considerato che la Carta costituzionale non prevede una alternativa praticabile (considerato, altresì, che la soluzione più volte richiamata dai ricorrenti, ossia la creazione ex novo di appositi organi costituenti, oltre a non essere prevista in Costituzione, si è rivelata, nei precedenti che la storia repubblicana ha conosciuto, inadeguata al raggiungimento del fine costituente); considerato, infine, che, ad una sommaria delibazione della questione, pare arduo porre per via interpretativa, all’interno di un sistema di democrazia rappresentativa, un limite ulteriore a quelli espressamente posti dall’art. 138 Cost, (tracciante i confini all’esercizio della discrezionalità politica in sede di riforma costituzionale); tanto premesso, non si rinvengono margini argomentativi per accedere alle tesi offerte da parti ricorrenti.
Non residuano con ciò dubbi sulla legittimità costituzionale delle norme della legge n. 352/1970 regolanti il quesito referendario, risultando funzionali all’attuazione del procedimento di revisione costituzionale disciplinato dall’art. 138 Cost.
Quanto al merito delle doglianze di illegittimità costituzionale sollevate, si osserva quanto segue.
Ritiene il Tribunale opportuno ricordare che la particolare ampiezza della discrezionalità di cui gode il Legislatore in materia di leggi elettorali, nella cui categoria, da intendersi in senso ampio, debbono necessariamente iscriversi le leggi di regolazione della procedura referendaria, ivi inclusa quella costituzionale, non comporta di per sé che le relative norme ordinarie siano sottratte al sindacato di costituzionalità, non potendo l’ordinamento riconoscere all’interno delle norme ordinarie zone franche, in grado di sfuggire al giudizio di conformità ai principi costituzionali. La scelta operata dalla Costituente di non inserire un’espressa disciplina dei meccanismi elettorali in costituzione, rimettendo al Legislatore ordinario la scelta e la configurazione dei relativi sistemi, “non significa che le norme legislative in materia non debbano essere concepite in un quadro coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento e, in particolare, con il principio costituzionale di uguaglianza, inteso come principio di ragionevolezza ( art.3 Cost.) E con il vincolo costituzionale imposto al legislatore di rispettare i parametri del voto personale, il quale, libero e diretto (artt. 48, 56 e 58 Cost.) In linea con una consolidata tradizione costituzionale comune agli Stati membri (art.3, prot1 CEDU)”; per le medesime ragioni, non potrebbe tollerarsi un caso di conclamata illegittimità costituzionale al solo fine di evitare una lesione al principio di continuità e costante operatività degli organi costituzionali, al cui funzionamento quelle leggi sono indispensabili, dovendosi piuttosto mirare al ripristino nella legge elettorale di contenuti costituzionalmente obbligati senza compromettere la permanente idoneità del sistema elettorale per garantire il funzionamento dell’ordinamento costituzionale mediante l’utilizzo di poteri a disposizione dell’organo giurisdizionale supremo, ovvero dal Legislatore stesso, in attuazione dei principi enunciati dalla stessa Corte costituzionale (Cass. ord. n. 12060/2013).
Anche le norme referendarie debbono dunque sottostare ai principi richiamati.
Allegavano parti ricorrenti che gli artt. 4, 12, 14 e 16 legge n. 352/1970 debbono ritenersi illegittimi nella parte in cui non prevedono che “qualora la legge costituzionale sottoposta a referendum abbia contenuto plurimo ed eterogeneo, agli elettori debbano essere sottoposti tanti quesiti distinti, a cui l’elettore possa rispondere affermativamente o negativamente, quanti sono gli articolo e le parti della legge che abbiano oggetti omogenei “.
A conforto della tesi proposta i ricorrenti richiamavano un precedente giurisprudenziale della Corte Costituzionale che ha avuto occasione di affermare che “corrisponde alla naturale funzione dell’istituto l’esigenza che il quesito da porre agli elettori venga formulato in termini semplici e chiari, con riferimento ai problemi affini e ben individuati; che nel caso contrario siano previste la scissione o anche l’integrale reiezione delle richieste non corrispondente un tale modello” sul presupposto che “se è vero che il referendum non è fine a se stesso, ma tramite della sovranità popolare, occorre che quesiti posti agli elettori siano tali da esaltare o da coartare le loro possibilità di scelta … è manifesto che un voto bloccato su molteplici complessi di questioni, insuscettibili di essere ridotte ad unità contraddice il principio democratico, incidendo di fatto sulla libertà del voto stesso”; era, in sintesi, stigmatizzato che un referendum di natura abrogativa diventasse “distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie” (Corte Cost. n. 16/1978).
Ritiene il Tribunale che l’evocazione del precedente costituzionale sia mal posta, non potendosi applicare de plano i principi prescritti per il referendum di natura abrogativa, regolato dall’art. 75 Cost. a quello costituzionale, disciplinato dall’art.138, stante l’ontologica differenza dei due istituti che, pacificamente, hanno natura diversa, come si evince dal semplice dato testuale delle norme in questione.
Non si ritiene, dunque, corretto estendere per analogia la disciplina propria del referendum abrogativo ex art. 75 Cost., come integrata dalle statuizioni della Corte evocate, al referendum costituzionale ex art. 138 Cost .
L’art. 75 Cost. fa riferimento all’ abrogazione totale o parziale di una legge o di un atto avente valore di legge, mentre l’art. 138.2 Cost. fa esplicito riferimento alla legge sottoposta a referendum, così come l’art. 138.1 Cost. si riferisce al fatto che le leggi stesse sono sottoposte a referendum.
La diversità di disciplina costituzionale trova la propria ragione d’essere proprio perché la sostanza dei due istituti è differente, nel senso che, come ha avuto modo di sottolineare la dottrina costituzionalistica, il referendum costituzionale ha ad oggetto una delibera legislativa del Parlamento non ancora produttiva di effetti, così che lo stesso referendum si inserisce a pieno titolo nell’iter di formazione della legge, mentre il referendum abrogativo, se approvato, è idoneo a costituire una vera e propria fonte del diritto, ovvero un elemento esterno che si oppone a un procedimento legislativo già concluso. Non solo: la natura di “fase procedimentale” del referendum costituzionale è facilmente deducibile da una particolare qualifica dello stesso, cioè di referendum di tipo sospensivo, ovvero sospensivo del procedimento di revisione costituzionale fino alla consultazione popolare.
Sotto tale profilo emerge in piena evidenza la differente posizione che nella formulazione del quesito assumono i comitati promotori del referendum: quello costituzionale non può avere ad oggetto che la delibera parlamentare di modifica assunta nel rispetto delle forme di cui all’alt. 138 Cost. ; nè potrebbe avere un contenuto diverso, competendo ai promotori solo un potere di iniziativa per sollecitare un pronunciamento del corpo elettorale; in caso di referendum abrogativo, per contro sono i promotori, con il proprio quesito, a determinare autonomamente i confini dell’innovazione normativa che, per abrogazione, si vuole produrre.
Analoghe differenze si ravvisano nel diritto di voto esprimibile in ciascuna delle due fattispecie. Il corpo elettorale è tenuto, ex art. 138, a esprimere il proprio assenso o dissenso rispetto alla promulgazione di una legge una volta che la stessa sia già stata oggetto di votazione da parte del potere legislativo al fine di consentirne l’entrata in vigore una volta promosso il referendum, e non ex novo, al fine di ottenerne la caducazione, come invece accade nel caso del referendum abrogativo.
Risulta, per contro, pertinente il richiamo effettuato dall’Avvocatura al precedente giurisprudenziale identificato nella sentenza della Corte n. 445/2005, emessa in tema di referendum ex art. 123, comma terzo, Cost. Con tale pronuncia la Corte ha escluso la possibilità di proporre un quesito parziale in quanto il tenore letterale del terzo comma dell’articolo 123 Cost. Cende palese che il referendum ivi disciplinato si riferisca alla complessiva deliberazione statutaria, e non a singole sue parti. I due istituti (referendum indetto a seguito di procedimento di revisione costituzionale e referendum statutario in sede di approvazione di nuovi Statuti regionali) costituiscono entrambi una fase eventuale del procedimento legislativo; l’oggetto del quesito, in entrambe le fattispecie, è definito obbligatoriamente dalla costituzione, ed è identificato, per il primo, nella “legge di revisione” e nel secondo, nello “statuto regionale”, non potendo in entrambi i casi essere intaccate singole parti delle complessive deliberazioni della pronuncia referendaria e, prima ancora, da parte dei promotori in sede di formulazione del quesito.
In entrambi i casi il corpo elettorale (rectius: corpo referendario, caratterizzato da unità nazionale, non risultando operare sulla base di collegi territoriali) è chiamato attraverso il voto ad esercitare una forma di controllo politico sul complesso della deliberazione parlamentare o consigliare, e compete al voto popolare una valutazione complessiva -positiva o negativa- sulla riforma costituzionale proposta o sullo Statuto regionale.
Non pare corretto attribuire, come sostengono i ricorrenti, al corpo elettorale un potere di composizione del (nuovo) testo costituzionale che ad esso non pare spettare, come la stessa Corte Costituzionale ha lasciato intendere nella sentenza 496/2000 in tema di referendum oppositivo/confermativo: “è indubitabile che la decisione politica di revisione costituzionale è rimessa primariamente dall’art. 138 alla rappresentanza politico parlamentare. All’interno del procedimento di formazione delle leggi costituzionali il popolo interviene infatti solo come istanza di freno, di conservazione e di garanzia, ovvero di conferma successiva, rispetto ad una volontà parlamentare di revisione già perfetta che, in assenza di un pronunciamento popolare, consolida comunque i propri effetti giuridici. Se ne possono desumere due fondamentali proposizioni: la prima di esse è che il popolo in sede referendaria non è individuato dalla Costituzione come propulsore della innovazione costituzionale. La seconda è che l’intervento del popolo non è a schema libero, poiché l’espressione della sua volontà deve avvenire secondo forme tipiche e all’interno di un procedimento, che, grazie ai tempi, alle modalità e alle fasi in cui è articolato, carica la scelta politica del massimo di razionalità di cui, per parte sua, è capace e tende a ridurre il rischio che tale scelta sia legata a situazioni contingenti”.
E ben si comprende poi che la natura propria del referendum costituzionale verrebbe a mancare e ad essere irrimediabilmente snaturata laddove si ammettesse la parcellizzazione dei quesiti; l’elettore, libero di scegliere su ogni singolo quesito, finirebbe in tal caso per intervenire quale organo propulsore dell’innovazione costituzionale contro la lettera della norma (oltre che a favorire l’ingresso di una contrattazione politica di carattere compromissorio, evenienza giustamente paventata dagli stessi ricorrenti).
Non possono poi essere ignorate le ulteriori valutazioni e le conseguenze negative derivanti da una determinazione di segno contrario.
Anche nelle riforme costituzionali di ampio respiro, come possono essere le revisioni della Costituzione interessanti più articoli e più titoli -da definirsi pur sempre revisioni parziali- il referendum nazionale non potrà che riguardare la deliberazione parlamentare nella sua interezza, non potendosi disarticolare l’approvazione o il rigetto di un testo indiviso alla sua fonte, le cui diverse parti sono in rapporto di reciproca interdipendenza.
Sotto tale profilo deve essere tenuto presente che le disposizioni di una legge di revisione, ancorché quest’ultima si occupi di articoli della Costituzione fra loro diversi e regolanti materie potenzialmente non omogenee, non possono per ciò stesso ritenersi prive di interconnessione.
L’interdipendenza renderebbe artificioso e, in ultima analisi, illegittimo, procedere ad eventuali ripartizioni di quesiti.
Lo si afferma a prescindere dalla oggettiva difficoltà e controvertibilità della definizione di “omogeneità” di articoli e materie, così come dei criteri di eventuale raggruppamento o scorporamento dei singoli quesiti. Val la pena sottolineare che neppure i ricorrenti offrivano soluzioni radicate in norme dell’ordinamento -e per la verità non paiono neppure porsi il relativo problema- circa l’attribuzione soggettiva dei poteri di frazionamento del quesito, rectius: della revisione voluta dal Parlamento; sia che si voglia attribuire il compito di formulazione dei quesiti separati dai comitati promotori, sia che si intenda individuare nell’Ufficio Centrale del Referendum l’organo a ciò deputato, va affermato che in tal caso i soggetti indicati agirebbero al di fuori dei poteri loro espressamente attribuiti dall’ordinamento.
Non può sottacersi che ogni Costituzione è patto fondante di una comunità statuale; corrisponde pertanto alla natura essenziale di ogni Carta costitutiva che ogni parte del patto, e quindi ogni singola materia trattata, sia strettamente legata, non solo nelle disposizioni adottate all’interno di ogni singolo argomento, ma anche alle altre varie materie che ne compongono l’intero testo, e che non possa prescindersi, neppure in sede referendaria, ad una scomposizione che alteri l’equilibrio complessivo delle reciproche interconnessioni avuto di mira dal Legislatore in funzione costituente. Una scelta di segno contrario aprirebbe il rischio a risultati costituenti una combinazione casuale di diverse scelte elettorali in grado distruggere l’unità del patto approvato dal Parlamento; la desiderata scomposizione dei quesiti potrebbe condurre all’esito, statisticamente possibile, di molteplici combinazioni, anche casuali, frutto di scelte referendarie differenziate da elettore a elettore. Ciascuna di esse potrebbe essere in grado di portare, in dipendenza dei risultati elettorali raggiunti, persino ad un mutamento di significato giuridico delle espressioni normative presenti nel testo; in ogni caso, l’esito potenzialmente alternato di approvazione/dissenso in relazione ad ogni singola domanda referendaria, finirebbe per condurre ad una ineludibile distruzione dell’unità disegno di revisione approvato dal Parlamento, con buona pace della volontà dell’Assemblea costituente laddove optava per un esercizio della sovranità popolare in termini di rappresentanza indiretta per i casi di modifica della Costituzione ed assegnava al Parlamento il compito di progettare ed approvare estensione contenuti della revisione della Carta costituzionale.
Deve dunque condividersi l’osservazione formulata da parti resistenti, ossia che una artificiosa successione dei quesiti su parti separate del testo comporta un rischio intrinseco di esiti potenzialmente incoerenti in ragione della natura sistematica dell’intero dettato costituzionale. Ne deriva che la materia referendaria costituzionale, al fine di garantire la coerenza interna e la ragionevolezza complessiva del testo richiede l’applicazione del principio simul stabunt, simul cadent.
Si osserva ancora che la valutazione deve essere espressa indipendentemente dalla ravvisabilità di interdipendenza tra le materie trattate nella presente legge di revisione costituzionale, dovendosi individuare un criterio astrattamente valido per ogni procedimento di modifica costituzionale
Quanto alle conseguenze negative, non può non considerarsi che in caso di dissenso in ordine ad alcuni quesiti referendari parziali e non ad altri, in mancanza del riconoscimento di un potere di promulgazione parziale del Presidente della Repubblica, un voto elettorale non omogeneo su tutti i quesiti bloccherebbe la promulgazione della legge di revisione anche con riguardo alla parte non colpita dal quesito referendario.
Non ritiene dunque il Tribunale di ravvisare una manifesta lesione del diritto alla libertà di voto degli elettori per difetto di omogeneità dell’oggetto del quesito referendario
Rileva, ancora, il Tribunale che la prospettazione di parti ricorrenti dell’illegittimità costituzionale della legge n. 352/1970 pare, in ultima analisi, volta a superare o, comunque, a sanare attraverso la parcellizzazione dei quesiti ciò che viene ritenuto essere un illegittimo ricorso alla procedura di cui all’art. 138, illegittimità non ravvisabile per le ragioni dianzi esposte, ribadendo i ricorrenti in plurimi passaggi che l’illegittimità delle norme evocate si fonda essenzialmente nella prospettata coartazione dell’elettore a dire un sì o un no comprensivi ad un testo contenente diversi oggetti, e così ad approvare le singole proposte non condivise o a bocciare singole proposte condivise; per le medesime ragioni non è ravvisabile un vulnus portato dall’espressione di un voto referendario di carattere unitario al principio democratico fondamentale dell’esercizio della sovranità popolare.
Si osserva da ultimo sul punto in esame che i ricorrenti omettono di richiamare, in particolare in ordine alla ripetutamente invocata sentenza costituzionale n. 16/1978, quanto nella stessa affermato in punto di inammissibilità di richieste referendarie eterogenee. Invero la Corte associava tra i requisiti indefettibili per l’applicazione della sanzione di inammissibilità un’ulteriore condizione, ossia che il quesito da sottoporre al corpo elettorale contenga non solo una pluralità totale di domande eterogenee, ma che non sia ravvisabile tra esse una “matrice razionalmente unitaria”. La carenza richiesta si ravvisa qualora non sia riconoscibile “un criterio ispiratore fondamentalmente comune un principio, la cui eliminazione o permanenza viene fatta dipendere dalla risposta del corpo elettorale”, principio evocato da ultimo anche nella sentenza della Corte n. 16/2016. Ciò vale a dire che quand’anche si fosse rivolto al corpo elettorale un quesito su differenti contenuti normativi, nondimeno il quesito sarebbe, in applicazione delle statuizione rese, ammissibile, una volta identificato una matrice unitaria nei termini declinati dalla Corte.
Va sottolineato -prescindendo da qualsivoglia valutazione di merito della proposta di riforma costituzionale, trattandosi di questione estranea al presente procedimento e certamente non di competenza della A.G.- che ogni intervento legislativo che modifichi e ridefinisca diritti, doveri e funzioni delle istituzioni come disciplinati nella Carta, interferisce con l’architettura delineata dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali successivamente emanate. Ogni intervento, oltre a garantire il necessario rispetto dei principi fondamentali tracciati dalla Carta costituzionale, comporta il necessario bilanciamento dei molteplici interessi tutelati e il rispetto dei rapporti di equilibrio tra i poteri dello Stato (cfr. in senso conforme, Corte Cost. sent. n.62/2009). L’unitarietà indicata, a maggior ragione, deve potersi ravvisare sia nel rapporto tra le modifiche che si intendono apportare e il complessivo disegno costituzionale che dalla riforma deriverebbe, sia all’interno del complessivo intervento di revisione, contribuendo anch’esso senza ombra di dubbio a connotare l’identità costituzionale dell’ordinamento. Orbene, parti ricorrenti appuntavano le proprie doglianze sulla pluralità di oggetti della riforma costituzionale, senza tuttavia affermare, neppure essi stessi, l’assenza di un criterio ispiratore comune. Pare difficilmente negabile l’oggettivo alveo finalistico (di per sé indipendente dalla valutazione di merito della riforma) in cui si inseriscono le previsioni volte a ridefinire l’assetto istituzionale apicale dello Stato, il procedimento legislativo, cui risulta correlata la ridefinizione del rapporto tra Stato e Regioni (attraverso l’introduzione, da un lato della clausola di supremazia, e, dall’altro dal rafforzamento delle Regioni “dal centro” mediante la nuova composizione del Senato), gli interventi relativi agli istituti di democrazia partecipativa, la preventiva devoluzione alla Corte Costituzionale del giudizio preventivo sulle leggi elettorali. Quanto osservato trova riscontro nella circostanza che gli stessi ricorrenti in sede di interlocuzione sul tema richiamavano unicamente la previsione di soppressione del CNEL. Va da sé che l’eventuale lateralità di una sola disposizione non pare sufficiente a da radicare l’unitarietà progettuale di revisione.
La sottoposizione articolo per articolo in separato quesito referendario potrebbe, in ipotesi, portare ad una paralizzante disarticolazione del testo costituzionale riformato; d’altro canto, non può sottacersi la difficoltà di individuare e definire giuridicamente il concetto di “omogeneità” in materia costituzionale, che pare a chi scrive non scindibile in sede di valutazione dal concetto di interdipendenza costituzionale; ne deriva che, avvenuta, in ipotesi, una separazione del quesito referendario in più domande per materie “omogenee”, sussisterebbe comunque il rischio di una disarmonia costituzionale per effetto della separazione “imposta” con isolamento di ogni singola materia dal contesto istituzionale in cui deve andare per forza ad inserirsi.
D’altro lato, ciò che viene definito con termine orribile “spacchettamento” del quesito a tutela della libertà del elettore, comporterebbe l’attribuzione al corpo elettorale del ruolo di fonte legislativa diretta di una modifica costituzionale con inevitabile eterogenesi dei fini, che in radice devono intendersi come razionalmente unitari, posti dal Legislatore a ciò costituzionalmente preposto.
La ravvisabilità di una volontà legislativa di revisione organica della Costituzione, da un lato, limita fortemente il peso oggettivo della lamentata pluralità delle materie di rango costituzionale trattate; dall’altro, parrebbe richiedere proprio ciò che i ricorrenti non vogliono ammettere, ossia che il cittadino elettore esprima il proprio consenso/dissenso rispetto a quello specifico complessivo progetto di riforma e, quale conseguenza derivata, alla complessiva lettura che da esso deriverebbe della nuova Carta Costituzionale.
In altri termini, non può condividersi l’equazione svolta dai ricorrenti di omogeneità/libertà d’esercizio del diritto di voto del cittadino elettore e eterogeneità/assenza di libertà di quello stesso soggetto. Posto che la Costituzione consente di sottoporre a referendum una legge costituzionale complessa ed eterogenea deve valutarsi se sussista una lesione della “libertà giuridica” dell’elettore (che è comunque certamente libero nei fatti di esprimere il proprio voto, qualunque esso sia, sulla proposta complessiva) per effetto della mancata scomposizione del quesito sul presupposto che il cittadino potrebbe voler aderire ad alcune parti della riforma e non ad altre. È del tutto evidente che competerà ad ogni singolo elettore formulare una valutazione complessiva di tutte le ragioni a favore e di quelle contrarie di tutte le parti di cui è composta la riforma, insieme considerate, esprimendo infine un voto sulla base della prevalenza del giudizio favorevole o sfavorevole formulato in ordine a talune sue parti, ovvero secondo ogni altra personale valutazione. Giova osservare che i promotori del referendum si sottopongono al rischio di manifestazioni di dissenso a valle di una valutazione complessiva che potrebbe essere posta a sanzione anche solo di minime parti di riforma eventualmente non gradite dal singolo elettore.
In definitiva, il diritto di voto non pare leso dalla presenza di un quesito esteso e comprensivo di un’ampia varietà di contenuti, in quanto è lo stesso art. 138 Cost. a connotare l’oggetto del referendum costituzionale come unitario e non scomponibile a mente dei commi primo e secondo dell’art. 138 Cost.
Quanto alla violazione del diritto elettorale sotto il profilo di una lesione al diritto di corretta ed esaustiva comprensione del quesito referendario da parte del cittadino elettore, si osserva che la questione non parrebbe essere posta dai ricorrenti in via di autonoma doglianza, avendo allegato la necessità di un frazionamento del quesito al principale fine di consentire una valutazione ed un voto ripartiti su ogni articolo oggetto di revisione.
Ciò nonostante, non pare inutile formulare alcune precisazioni in ordine al concetto di “chiarezza” funzionale all’esercizio del diritto di voto, avendo le parti denunciato l’illegittimità costituzionale delle norme che ne regolano la formulazione.
La prima osservazione non può che attenere ai modi di formulazione del quesito astrattamente prescritti dalla legge regolatrice del referendum, risolto in senso positivo in ordine alla sussistenza di esso per le ragioni escludenti la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale posta in relazione alla legge n.352/1970.
Deve dunque valutarsi se sia prospettabile una lesione del diritto elettorale per un difetto di “chiarezza” presente nella concreta formulazione dell’odierno quesito, in particolare, per un’erronea scelta compiuta dai comitati promotori tra le opzioni ivi poste (valutazione di esclusiva competenza, peraltro, dell’Ufficio Centrale per quanto sopra affermato).
L’Ufficio Centrale per il Referendum ha avuto modo di affermare che nel caso in esame la legge costituzionale sottoposta a referendum presenta natura “mista”, mostrando caratteri sia di “legge di revisione costituzionale” da intendersi come legge che modifica il testo di “articoli” della Costituzione, sia di “altra legge costituzionale”, da intendersi come legge che modifica un testo normativo di rango costituzionale non presente nella Carta costituzionale e, in via residuale, come legge che non modifica il testo di articoli della Costituzione, posto che, nonostante l’autodiachia di “legge di revisione” adottata dal Legislatore, il testo normativo comporta anche la modifica di una disposizione della Costituzione che si risolve nella nuova denominazione del Titolo V della Parte II della Costituzione, nonché la modifica del testo di alcuni articoli di tre diverse leggi costituzionali, ragioni che hanno portato l’Ufficio Centrale per il Referendum ad adottare per la formulazione del quesito il paradigma previsto dall’art. 16 della legge costituzionale.
Su tali presupposti, ed avuto riguardo all’elettore medio, appare difficile individuare un diverso livello di comprensione, e quindi di consapevole manifestazione del voto, ove in luogo dell’oggetto della legge di riforma sottoposta all’approvazione (e degli estremi identificativi della stessa), venisse sottoposto all’elettore un articolato elenco di tutte le specifiche disposizioni soggette a modifica.
Neppure sotto tale residuale profilo pare dunque ravvisarsi il fumus di una più generale lesione dell’esercizio del diritto di voto referendario.
A ben vedere, la soluzione proposta dagli odierni ricorrenti, finirebbe, con tante risposte referendarie “parziali”, per traslare il referendum dal piano del controllo (politico) a quello della normazione.
In sintesi, non si ravvisa il fumus della dedotta lesione al libero e pieno esercizio del diritto di voto dell’elettore referendario chiamato ad esprimere il proprio assenso/dissenso su un unico quesito, comprensivo di ogni aspetto della riforma approvata dal Parlamento, peraltro rispondente all’ineludibile logica binaria dell’istituto referendario.
In forza di tutte le argomentazioni sviluppate -sottolineando ancora che l’elettore è chiamato ad esprimere il proprio libero voto all’interno del procedimento referendario costruito dal Costituente come meramente “eventuale”- non si ravvisa neppure la paventata violazione del diritto supremo del principio democratico della sovranità popolare, risultando conforme a Costituzione un procedimento di revisione costituzionale avviato dagli organi rappresentativi nei tempi e nei modi portati dalla Costituzione vigente, sottoposto per iniziativa di più comitati referendari alla -facoltativa- consultazione popolare, elementi che impongono di escludere la paventata lesione al massimo diritto democratico vigente.
In ultima analisi, la declinazione del procedimento di revisione costituzionale disciplinato dall’Assemblea costituente in termini unitari indipendentemente dall’ampiezza e dall’intrinseca omogeneità delle disposizioni oggetto di revisione non consente di accedere -all’esito della valutazione sommaria propria del rito cautelare, ed effettuato in tale angusto ambito il dovuto esame- alle censure allegate in ordine agli artt. 4, 12 e16 legge n. 302/1970 nella parte in cui non impongono una formulazione di più quesiti referendari per ciascuno degli articoli oggetto di modifica, con correlata previsione di più voti referendari all’interno di un singolo procedimento di revisione costituzionale.
Un breve cenno deve essere ora dedicato ai principi individuati dalla sentenza n.1/2014, al fine di valutare se la loro applicazione al presente caso consenta una differente soluzione.
E’ noto che la Corte, muovendo dalla valutazione che era in gioco un diritto individuale inviolabile e che la legge (elettorale) regolatrice definiva le regole della composizione di organi essenziali per il funzionamento di un sistema democratico, affermava che il diritto soggettivo che si assumeva essere leso (esercizio del diritto di voto) era per ciò stesso un diritto (individuale) “strettamente connesso con l’assetto democratico” del Paese.
Si veniva in tal modo a superare il tradizionale assetto individuale del giudizio di incidentalità costituzionale che, muovendo dall’alveo di un giudizio di parti, e per ciò stesso privilegiante gli interessi individuali e soggettivi di queste, veniva ad attingere la sfera del sistema costituzionale, con specifica attenzione, in quella sede, ai meccanismi di rappresentanza politica. Le considerazioni svolte dalla Corte sulla legge deferita per vizio di legittimità costituzionale, muovevano, come par di capire dalla reiterazione delle argomentazioni ed espressioni utilizzate, da una valutazione di oggettivo e grave pericolo per il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche della Repubblica. Seguendo il ragionamento svolto dalla Corte, si afferma che è consentito affrontare questioni cruciali per l’assetto democratico, anche difficilmente avvicinabili attraverso il giudizio di incidentalità, anche al fine di non consentire l’esistenza di zone franche, sottratte all’intervento della Corte.
Va precisato che il giudice costituzionale non affermava, per lo meno espressamente, l’assunzione di un ruolo di garante di ultima istanza del regolare funzionamento del circuito democratico, eventualmente prescindendo, in fatto, dal principio di incidentalità di cui all’art. 1 legge costituzionale n.1/1948 e 23 legge n. 87/1953, non avendo neppure richiamato un approccio analogo a quello utilizzato in materia di conflitti tra i poteri (ove la giurisdizione si dispiega in via residuale quando vengono meno le possibilità di mediazione per via politica).
Non è questa la sede per rilevare se la pronuncia richiamata integri uno stare decisis, applicabile de plano ad ogni vizio normativo correlato all’esercizio del diritto di voto, anche referendario; quel che si può trarre dall’insegnamento offerto è che, come ben esplicitato dalla Corte anche in occasione della richiamata sentenza, occorre pur sempre che il giudice remittente, effettuato il dovuto esame, ravvisi un motivato dubbio di costituzionalità della norma, integrato dalla ipotizzabile violazione di uno o più parametri costituzionali oppure da una oggettiva incertezza nella sua applicazione. Applicati i principi posti nella sentenza n.1/2014, ed in particolare il mantenimento dei requisiti della incidentalità e della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, non può neppure sostenersi un accesso alla Corte da parte del giudice ordinario -in assenza di normati automatismi valutativi – per il solo fatto della rilevanza costituzionale e della estrema delicatezza delle questioni trattate, neppure per il caso in cui si attinga alla sfera del regolare funzionamento del circuito democratico.
Orbene, pare a chi scrive (in altre occasioni giudice remittente in casi di costituzionalità infine accolti) che le argomentazioni svolte nei capi che precedono non consentano di ravvisare siffatto vulnus, neppure alla più severa delle analisi, dovendosi ricondurre le caratteristiche referendarie denunciate proprio alla struttura della norma costituzionale invocata (art. 138 Cost.), cui la legge referendaria aderisce, per ciò stesso non passibile di censura alcuna. Riscontro è dato dal fatto che gli stessi ricorrenti, al fine di sostenere un ambito di operatività della disposizione costituzionale diverso dal dato testuale (e dall’interpretazione sistematica) dell’art. 138, non potevano che appellarsi a singole posizioni espresse in seno all’Assemblea Costituente, prescindendo dal precipitato normativo dei lavori, ed a non meglio puntualizzati orientamenti dottrinari.
Anche sotto tale residuo profilo non vi rinvengono ragioni per accedere alle richieste cautelari enunciate.
Dipanando il procedere argomentativo in un’ultima doverosa sintesi, possono riassumersi le ragioni delle determinazioni assunte nei seguenti termini:
-difetto di strumentalità della misura cautelare richiesta;
-rispondenza della formulazione del quesito referendario in un’unica domanda formulata ai sensi della legge n. 352/1970, ancorché avente ad oggetto più articoli della Costituzione e più oggetti, alle previsioni di cui all’art. 138 Cost.;
-l’ontologica diversità dell’istituto referendario costituzionale di cui all’art. 138 Cost. da quello abrogativo regolato dall’art. 75 Cost. non consente l’evocazione di profili di incostituzionalità per violazione dell’art. 3 Cost.;
-la pedissequa applicazione della procedura disciplinata all’art.138 Cost. non consente di sollevare dubbi di legittimità costituzionale delle norme ordinarie in contestazione in relazione agli artt. 1 e 48 Cost.
Sulla base delle argomentazioni svolte non ritiene dunque il giudicante di ravvisare dubbi di legittimità costituzionale – plausibili e consistenti – delle disposizioni referendarie in oggetto.
In sintesi conclusiva, non si ritengono condivisibili la tesi proposte a supporto della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale posta in relazione agli artt. 4, 12, 16 L. n. 352/1970 per contrasto con gli artt. 1, 3, 46, 138 Cost.
Risulta assorbita ogni ulteriore questione dedotta in atti.
A quanto sin qui osservato consegue il rigetto della domanda cautelare (avente ad esclusivo oggetto la rimessione della questione di legittimità costituzionale alla Corte).
Preso atto delle determinazioni assunte dalle parti in udienza in tema di richiesta di liquidazione delle spese di lite, si dispone la compensazione
P.Q.M.
letti gli artt. 669-bis e segg.. 700 c.p.c.:
1) rigetta il ricorso indicato in premessa;
2) spese compensate.
Si comunichi.
Milano, 7.11.2016 Il Giudice
Firmato Da: DORIGO LORETA M.G. Emesso Da: POSTECOM CA3 Serial#: deaf5
ORDINANZA SU RICORSO RANDAZZO ONIDA
N. R.G. 2016/54353
TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO
PRIMA CIVILE
Nel procedimento cautelare iscritto al n. r.g. 54353/2016 promosso da:
Avv. BARBARA RANDAZZO (C.F. RNDBBR69E50I441C)
Avv. VALERIO ONIDA (C.F. NDOVLR36C30F205R)
in proprio; elettivamente domiciliati in Via A. Saffi, 27 20123 MILANO presso il difensore avv. RANDAZZO BARBARA
RICORRENTI
contro
PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
MINISTERO DELL’INTERNO
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
con il patrocinio dell’avv. AVVOCATURA STATO MILANO, elettivamente domiciliati in VIA FREGUGLIA, 1 20122 MILANO presso il difensore avv. AVVOCATURA STATO MILANO .
RESISTENTI
Il Giudice dott. Loreta Dorigo,
a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 27/10/2016,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
I
Con ricorso ex art. 700 c.p.c. Barbara Randazzo e Valerio Onida, nella loro qualità di elettori, difesi in proprio, adivano il Tribunale di Milano chiedendo che venisse accertato e dichiarato in via d’urgenza il loro diritto a partecipare alla consultazione referendaria indetta con d.p.r. 27/9/2016 in data 4/12/2016 nel rispetto della libertà di voto, in tesi violata dall’eterogeneità del quesito proposto, previa rimessione alla Corte costituzionale, ex art. 23 L.n.87/1953, anche ai fini dell’esercizio dei poteri di sospensione a questa spettanti, della questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, 12, 16 L. n. 352/1970, ritenuti contrastanti con gli artt. 1, 48, 138 Cost., nella parte in cui non prevedono che qualora la legge costituzionale sottoposta a referendum abbia contenuto plurimo, agli elettori debbano essere sottoposti tanti quesiti quanti sono gli articoli o le parti di legge ad oggetto omogeneo.
Deducevano che:
– la legge costituzionale dal titolo “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero di parlamentari, di contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V parte II della Costituzione” (approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera), veniva pubblicata in G.U. n. 88 del 15/4/2016; l’Ufficio Centrale per il Referendum istituito presso la Corte di Cassazione dichiarava la legittimità del quesito referendario presentato ex art. 138, comma due, Cost.; con D.p.r. 7/9/2016 il Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con i Ministri dell’Interno e della Giustizia, ha indetto referendum popolare, qualificato come confermativo; il quesito risulta così formulato: “approvate il testo della legge costituzionale concernente <<disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero di parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione>>” ;
-sussisteva legittimazione ed interesse ad agire dei ricorrenti nella propria qualità di elettori in procinto di esercitare il proprio diritto di voto nel referendum indetto;
-l’azione dispiegata era un’azione di accertamento della lesione, già realizzatasi con l’atto di indizione del referendum costituzionale, del diritto elettorale menzionato, che non potrebbe essere esercitato in piena libertà ai sensi degli artt. 1 e 48 Costituzione in assenza dei caratteri di omogeneità degli argomenti trattati dal quesito referendario, omogeneità richiamata dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale in tema di referendum abrogativo; diritto, dunque, violato dalla concreta formulazione del quesito sottoposto al voto referendario;
-l’accertamento della lesione presuppone il deferimento alla Corte costituzionale della questione incidentale di costituzionalità delle norme che disciplinano la formulazione del quesito referendario in seno alla legge n. 352/1970, nella parte in cui non tengono conto dell’esigenza di omogeneità del quesito referendario;
-l’ammissibilità della domanda di accertamento della lesione di un diritto elettorale era stata risolta in senso conforme alla tesi prospettata dalla Corte costituzionale nella sentenza n.1/2014, laddove ha affermato che il giudice ordinario, in qualità di giudice dei diritti ha il compito di accertare la portata del diritto di voto del cittadino elettore laddove ravvisi un incerto esercizio del diritto in forza di una normativa elettorale, in ipotesi incostituzionale, previa l’eventuale proposizione della relativa questione alla Corte, di per sé non esaustiva della tutela richiesta, che verrebbe perfezionata solo con la pronuncia con la quale il giudice ordinario accerta il contenuto del diritto dell’attore all’esito della sentenza della Corte; il fatto che la dedotta incostituzionalità sia l’unico motivo di ricorso di merito non osta al riconoscimento del requisito della rilevanza laddove sia individuabile nel giudizio principale un petitum separato dalla questione di legittimità costituzionale (Corte Cost. sent. n.4/2000);
Quanto al fumus boni iuris della questione posta osservavano che:
-la legge sottoposta a referendum apporta modifiche a cinque dei sei Titoli, parte seconda, della Costituzione, afferenti materie diverse e tra loro autonome sotto dieci differenti profili, privi di omogeneità; l’elettore viene posto di fronte all’alternativa tra accettare o rifiutare in blocco la modifica costituzionale proposta senza poter discernere ed esprimere un voto ripartito, fondato su quesiti formulati in termini chiari, con riferimento ai problemi affini e ben individuati, necessari al fine di non coartare la libertà di scelta dell’elettore (come avverrebbe in caso di voto bloccato su molteplici e complesse questioni, insuscettibili di essere ridotte ad unità), esigenza insopprimibile, come affermato dalla Corte Costituzionale nella sent. 16/1978 in tema di referendum abrogativo;
-il carattere fondamentalmente oppositivo, a tutela delle minoranze, del referendum previsto dall’art.138 Costituzione, da ritenersi non necessario secondo il dettato costituzionale, rafforzato dalla mancata previsione di un quorum per la validità dello stesso, impone che l’eventuale dissenso riguardo alle deliberazioni parlamentari debba potersi esprimere con riguardo ai loro contenuti concreti, consentendo anche l’espressione di eventuale dissenso/consenso su alcuni contenuti e non su altri, non potendosi, per contro, interpretare con una sorta di necessaria ratifica;
-la legge oggetto della proposta referendaria non è una singola legge di revisione della Costituzione ex art. 138, ma una proposta complessiva di riforma della parte seconda, sicché risulta impropria la definizione di referendum “confermativo”;
-la legge n.352/1970 tace sull’ipotesi di un referendum costituzionale chiesto su una legge di revisione a contenuto eterogeneo, prevedendo che il quesito faccia riferimento all’articolo o agli articoli della Costituzione che si modificano; peraltro, il quesito non ottempera neppure a tale previsione, riportando quale oggetto della domanda l’intitolazione della stessa legge di revisione, anziché gli articoli costituzionali oggetto di modifica;
-la lacuna evidenziata comporta la censura di illegittimità costituzionale per un vizio del procedimento che comporta una violazione del supremo principio democratico della sovranità popolare;
-alla scomposizione del quesito avrebbero dovuto provvedere i soggetti che chiedono il referendum, ovvero, in caso di loro mancanza, l’Ufficio Centrale per il Referendum;
-preso atto dell’approvazione del quesito avvenuta da parte di tale ultimo organo, il cittadino, in assenza di un ricorso diretto alla Corte Costituzionale, non può che procedere promuovendo un processo ordinario, chiedendo in tale sede la prospettazione della questione di legittimità costituzionale;
-quanto al periculum, deve ritenersi ravvisabile nella imminente trattazione referendaria; la Corte Costituzionale potrebbe infatti sospendere gli atti del procedimento referendario avvalendosi d’ufficio ed in via analogica di poteri di sospensione attribuiti alla Corte dalla legge 87/1953 (artt. 35 e 40).
Concludevano rassegnando le conclusioni come specificate ed integrate in sede di udienza di trattazione. In particolare, affermavano che la domanda cautelare svolta nella presente sede era da identificarsi nell’istanza di rimessione in via d’urgenza alla Corte Costituzionale della questione di legittimità degli articoli 4,12 e 16 della legge n.352/1970; la domanda di merito doveva identificarsi in quella riportata per esteso in ricorso in sede di rassegnazione delle conclusioni, identificata, quindi, nella domanda di accertamento di violazione del diritto di partecipazione alla consultazione referendaria nel rispetto della libertà di voto.
Si costituiva ritualmente l’Avvocatura dello Stato per Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministri evocati (ma non per la Presidenza della Repubblica).
In punto di fatto rilevava che la formulazione del quesito referendario è stata ritenuta conforme a quanto stabilito dalla legge ordinaria n. 352/1970 che regola la materia referendaria in tema di riforme costituzionali, in particolare con riferimento agli artt. 4 e 16, posto che l’Ufficio Centrale aveva valutato e ammesso il quesito da sottoporsi agli elettori, con conseguente inammissibilità delle censure portate dai ricorrenti, che, in fatto, avevano inteso censurare l’operato dell’Ufficio Centrale e dei Comitati promotori.
Parti resistenti hanno eccepito, nello specifico:
-il difetto di legittimazione della Presidenza della Repubblica, che non ha ritenuto di costituirsi in giudizio;
-l’inammissibilità del ricorso e il difetto del contraddittorio, poiché non sono stati evocati né l’Ufficio Centrale né i Comitati Promotori;
-il difetto di legittimazione passiva degli odierni resistenti;
-la non sindacabilità giurisdizionale delle valutazioni dell’Ufficio Centrale;
-l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse attuale e del requisito dell’incidentalità del procedimento cautelare, poiché nel caso in esame un’eventuale pronuncia di incostituzionalità della Corte soddisferebbe l’interesse degli attori, la cui domanda di merito si atteggia alla stregua di una fictio iuris; inconferente il richiamo effettuato da controparti alla sentenza n.1/2014 (sul cd. Porcellum), poiché in quella sede l’attore aveva allegato la lesione di un diritto concreta e già avvenuta, non potendosi, per contro, ritenere ammissibile un’azione con la quale venga richiesto l’accertamento in astratto del contenuto di tale diritto, e non esistendo nel caso di specie una “zona franca” sottratta al sindacato del giudice delle leggi (sent. n. 1107/2015);
-il difetto della strumentalità del procedimento cautelare rispetto alla questione di merito;
-l’inammissibilità della domanda per contrasto con i tempi perentori prescritti dall’art. 15, comma 3, della legge 352/1970;
-la non pertinenza dei precedenti costituzionali richiamati in tema di referendum abrogativo, stante la differenza sostanziale tra le due forme di referendum ex art 75 Cost. (abrogativo), da un lato e referendum ex art 138 Cost. (costituzionale), dall’altro; il referendum ivi disciplinato si riferisce alla complessiva deliberazione parlamentare e non a singole sue parti, come confermato dalla legge di attuazione n. 352 del 1970. Quanto i ricorrenti imputavano alla legge n.352/1970 sostenendone l’illegittimità costituzionale, deriva in realtà proprio da una scelta della stessa Carta costituzionale, in quanto tale insindacabile;
-il corpo elettorale è chiamato attraverso il voto ad esercitare una forma di controllo politico sul complesso della deliberazione parlamentare o consigliare, laddove le possibili modifiche sono state introdotte durante il dibattito parlamentare o consigliare, e non resta che esprimere attraverso il voto popolare una valutazione complessiva della riforma costituzionale o dello Statuto regionale;
-l’oggetto del referendum costituzionale è quindi rappresentato dalla legge di revisione della Costituzione e, pertanto, la formulazione del quesito non rientra nella disponibilità dei promotori, cui spetta solo un potere di iniziativa per sollecitare un pronunciamento del corpo elettorale;
-l’infondatezza delle censure sollevate in ordine al carattere confermativo del quesito referendario, coincidenti con quelle sollevate avverso il D.P.R. 27 settembre 2016, già impugnato dai ricorrenti avanti al TAR Lazio, che su analoghi ricorsi si è già pronunziato con la citata sentenza n° 10445/16 del 17/20.10.2016, dichiarando il difetto assoluto di giurisdizione, con conseguente inammissibilità anche in questa sede di tutte le relative argomentazioni, per difetto assoluto di giurisdizione;
-l’odierna procedura referendaria ha ad oggetto un atto di riforma di natura “mista”, che ricomprende sia disposizioni di formale revisione, sia ulteriori disposizioni di rango costituzionale,
appartenente alla più “’ampia” e capiente categoria delle leggi costituzionali latu sensu considerate, per le quali la formula del quesito prevista dal citato art. 16 prevede l’indicazione del titolo della legge, come approvata dal Parlamento e pubblicata in Gazzetta Ufficiale;
-il titolo recepito dal quesito si colloca in questo contesto quale unico elemento unificante che riconduce all’atto nella sua interezza: al contrario, l’indicazione dei soli articoli novellati risulterebbe necessariamente incompleta in quanto omissiva delle parti “ulteriori” e quindi distorsiva delle informazioni fomite all’elettore.
Concludevano, tutto quanto premesso, per il rigetto di tutte le domande avversarie, con vittoria delle spese di lite.
All’udienza del 27/10/2016, all’esito di ampia discussione in contraddittorio tra tutte le parti costituite, che avevano modo di meglio precisare ed argomentare in ordine alle domande ed eccezioni formulate in atti, il giudice riservava la decisione.
All’esito della trattazione osserva il Tribunale che il ricorso proposto è infondato e deve essere rigettato per le ragioni di seguito esposte.
L’esame delle molteplici questioni poste all’attenzione della scrivente non può che principiare dalle questioni di rito controverse, che verranno affrontate per sintesi, derivando da una delibazione sommaria, propria della natura cautelare d’urgenza del presente provvedimento.
In primo luogo, non può non accedersi all’eccepito difetto di legittimazione passiva del Presidente della Repubblica.
È certamente vero che il resistente riveste la titolarità formale del Decreto con il quale era stato indetto il referendum costituzionale. Va, tuttavia, considerato che l’atto menzionato segue alla delibera adottata dal Consiglio dei Ministri in data 26/9/2016, proposta al Presidente della Repubblica dal Presidente del Consiglio dei Ministri che controfirma l’atto di cui assume la responsabilità politica ed amministrativa, assumendo la conseguente legittimazione passiva in sede processuale. Quanto osservato appare in linea con le pronunce giurisprudenziali emesse dei giudici amministrativi, costanti nell’affermare difetto di legittimazione processuale della massima carica dello Stato. Si ricorda da ultimo la sentenza 10445/2016 TAR Lazio, laddove afferma che “i decreti del presidente della Repubblica del tipo di quelle in contestazione non sono insindacabili in termini assoluti, ma sono sottratti al sindacato giurisdizionale esclusivamente nei limiti in cui il relativo contenuto costituisce esercizio di poteri non riconducibili a quelli amministrativi e politici non liberi nei fini, ma siano piuttosto riconducibili all’esplicazione di poteri neutrale di garanzia e controllo di rilievo costituzionale”. Si ricorda, ancora, che la carenza di legittimazione processuale della massima carica dello Stato è stata oggetto di plurime statuizioni anche per impugnazioni dei decreti emanati dal Presidente della Repubblica, presentanti natura di atti di alta amministrazione; in tutti i casi è stato affermato che la legittimazione passiva spetta al Ministro proponente.
Accertato il difetto di legittimazione passiva del Presidente della Repubblica, deve pertanto disporsi l’estromissione di tale parte dal presente procedimento.
Non può, per contro, trovare accoglimento la domanda di integrazione del contraddittorio avanzata dall’Avvocatura dello Stato nei confronti dei comitati referendari, posto che nell’attualità risulta esaurita la fase referendaria di stretta pertinenza dei suddetti organi elettorali. Invero, risultano pacificamente già definite le diverse fasi procedimentali afferenti alla raccolta delle firme, alla formulazione del quesito, alla sua presentazione per la verifica di legittimità all’Ufficio centrale per il referendum, conclusasi, come noto, con esito positivo per i referendari, con il relativo decreto, prima della proposizione del presente istanza cautelare.
In esito ad una delibazione sommaria, non si ravvisano dunque elementi per qualificare i comitati promotori alla stregua di litisconsorti necessari in relazione alle istanze avanzate nella presente sede processuale.
Quanto all’eccezione formulata da parti resistenti di carenza di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. in ordine alla domanda di accertamento -rectius: di accertamento costitutivo- dispiegata nel merito ritiene il giudicante di condividere le allegazioni dispiegate in tema dai ricorrenti.
Deve, in vero, condividersi l’armonico orientamento espresso dalla C.S. e dalla Corte Costituzionale in ordine alla sussistenza di un permanente interesse ad agire in materia elettorale in capo ad ogni cittadino elettore laddove deduca anche solo sotto il profilo di dubbio o incertezza oggettiva circa l’esatta portata di diritti ed obblighi scaturenti da un rapporto giuridico di fonte legale, una situazione di potenziale ingiusto pregiudizio non evitabile se non attraverso il richiesto accertamento giudiziale della concreta volontà della legge (cfr. Corte Costituzionale n. 1/2014, Cass. nn. 8878/2014; 12060/2013; 13556/2008; 4103/1982).
Il diritto di voto, che va affermato ed esercitato con pienezza espressiva dei valori costituzionali, diretta espressione della dignità della persona, costituisce manifestazione della sovranità popolare ai sensi dell’art.1, comma 2 costituzione e costituisce diritto inviolabile e permanente dei cittadini (art.3 CEDU) i quali possono essere chiamati ad esercitarlo in ogni momento e devono poter esercitare in modo conforme a Costituzione; il concreto pregiudizio allegato -indipendentemente dalla fondatezza dell’allegazione nel merito- è “cioè sufficiente per giustificare la meritevolezza ad agire in capo ai ricorrenti”.
Quanto al fatto che le parti azionano qui un petitum che non si rivela autonomo e distinto dalla questione costituzionale proposta del procedimento principale, con conseguente difetto di una pronuncia conclusiva in assenza del pronunciamento della Corte, corre l’obbligo di ricordare che è stata affermata in più provvedimenti la sussistenza del requisito della “incidentalità” anche nell’ipotesi in cui la caducazione della norma contestata porti ad una immediata ed automatica soddisfazione della pretesa azionata nel giudizio cautelare (affermazione resa in relazione al rigetto dell’eccezione di inammissibilità per difetto di incidentalità).
E’ noto che il ricorso d’urgenza è subordinato alla sussistenza di una serie di presupposti, da dimostrarsi a cura del ricorrente (periculum in mora, fumus boni iuris, irreparabilità, gravità ed imminenza del danno, atipicità e sussidiarietà del tipo di tutela richiesta).
Fino alla riforma del 2005, il ricorrente era tenuto ad indicare a pena di inammissibilità anche la causa petendi e il petitum (mediato e immediato) del successivo e necessario giudizio di merito: oggi, atteso l’allentamento del vincolo di strumentalità tra il ricorso d’urgenza e l’azione di merito, evincibile dall’art. 669 octies, comma sei, c.p.c., si discute sulla necessità che il primo debba contenere in modo rigoroso gli estremi della seconda.
La risposta non può che essere positiva.
L’orientamento comune, cui questo giudicante aderisce, è che l’individuazione dei caratteri dell’azione di merito deve in ogni caso correlarsi alla perdurante esigenza di dar conto della sussistenza del fumus boni iuris, requisito evidentemente funzionale alla situazione giuridica soggettiva di cui si domanda una tutela anticipata ed urgente, anche in ragione della pacifica applicabilità al ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. degli artt. 669-bis e ss. c.p.c.
Ne deriva che l’individuazione dell’azione di merito mantiene ancora oggi rilievo imprescindibile, costituendo il parametro per la determinazione del Giudice competente ad autorizzare il provvedimento ex art. 700 c.p.c.; a ciò consegue l’inammissibilità delle istanze cautelari che non contengano una chiara e univoca precisazione del petitum e della causa petendi dell’azione di merito che potrà essere eventualmente instaurata.
Applicato il principio enunciato, l’esame del caso non può che muovere dalla futura domanda di merito, che è onere del ricorrente prospettare in sede cautelare ante causam, al fine di delineare il diritto oggetto dell’istanza di tutela anticipata, radicare correttamente la competenza per materia e valore dell’A.G.O. adita e verificare l’ammissibilità del rimedio giudiziale esperito sotto il profilo della necessaria strumentalità dello stesso rispetto alla definitiva tutela nel merito del diritto azionato.
Orbene, parti ricorrenti erano chiamate dal giudicante a precisare in sede di udienza di trattazione la formale enunciazione del giudizio di merito che intendeva instaurare.
Dalle allegazioni in fatto e in diritto sviluppate nell’atto introduttivo del presente procedimento, come precisato in sede di udienza di trattazione, la domanda di merito dei ricorrenti deve essere identificata in una domanda di accertamento della lesione del loro diritto a partecipare alla consultazione referendaria indetta con d.p.r. 27/9/2016 in data 4/12/2016 nel rispetto della libertà di voto, in tesi violata dall’eterogeneità del quesito proposto, previa remissione alla Corte Costituzionale, ex art. 23 l.87/1953, della questione di legittimità costituzionale sugli artt. 4, 12, 16 L. n. 352/1970, ritenuti contrastanti con gli artt. 1, 48 e 138 Cost., nella parte in cui non prevedano che qualora la legge costituzionale sottoposta a referendum abbia contenuto plurimo, agli elettori debbano essere sottoposti tanti quesiti quanti sono gli articoli o le parti di legge ad oggetto omogeneo.
La domanda di natura cautelare, precisata in sede di trattazione, va formalmente identificata nella richiesta emanazione di un provvedimento volto a suscitare, anche, l’esercizio dei poteri di sospensione delle operazioni referendarie da parte della Consulta, previa rimessione alla stessa Corte delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, 12, 16 L. n. 352/1970 per contrasto con gli artt. 1, 46 e 138 Cost.
Ponendo ordine nelle non sempre lineari argomentazioni di parti ricorrenti, si evince, tuttavia, che il vero rimedio “cautelare”, è da identificare non nella rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, mero strumento mediato all’ottenimento del vero risultato, ossia ottenere un provvedimento di sospensiva/revoca delle operazioni referendarie (per intervento della Corte o per iniziativa delle stesse Autorità apicali dello Stato), funzionale alla tutela della prospettata lesione del diritto di voto, il cui fumus è dato, in tesi attorea, dalla inammissibilità ex art. 138 Cost. di una proposta di revisione costituzionale non puntuale, ma avente ad oggetto più articoli o finanche più materie, e comunque dalla necessità che il quesito referendario sia scomposto in molteplici singole ed autonome domande, quanti sono gli articoli della Costituzione interessati dalla revisione.
E’ noto che attraverso la riforma dell’ art. 669 octies c.p.c., come modificato dalla legge n. 80/2005 e dalla legge n. 69/2009, si è introdotto nell’ordinamento la cosiddetta attenuazione, definita anche “allentamento”, del vincolo di strumentalità cautelare tra provvedimento richiesto in via d’urgenza e la tutela di merito a cognizione piena di quello stesso diritto.
Per effetto della modifica così introdotta è stata svincolata l’efficacia di alcuni provvedimenti cautelari dall’instaurazione e dalla prosecuzione del giudizio di merito. A mente degli artt. 669 octies e decies c.p.c., l’inibitoria cautelare può durare indefinitamente nel tempo, salva la possibilità di chiedere la modifica o la revoca del provvedimento in questione ove si verifichino mutamenti nelle circostanze o si alleghino fatti anteriori di cui si acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare e ciò, indipendentemente dall’instaurazione del procedimento di merito. Per tale ragione i provvedimenti in questione vengono definiti come provvedimenti ad efficacia indefinitamente protratta. Ciononostante trattasi di provvedimenti che conservano un carattere provvisorio, rimanendo pur sempre soggetti a caducazione o assorbimento da parte della sentenza di merito, al pari di tutti i provvedimenti cautelari; ai sensi dell’art. 669 novies c.p.c. la durata potenzialmente indeterminata della tutela accordata in via cautelare, resta pur sempre affidata a provvedimento dotato di vita “provvisoria” in quanto, oltre a essere assoggettato all’azione di revoca o modifica, può essere travolto dal provvedimento definitivo principale, in attesa o in vece del quale è stato emanato e dal quale è funzionalmente preordinato; in altri termini il ravvisare una strumentalità attenuata o debole del procedimento cautelare rispetto al procedimento di merito va interpretato con esclusivo riferimento alla potenziale stabilità di fatto del provvedimento cautelare che resta pur sempre, un elemento accidentale ed estrinseco, dipendente dall’inerzia delle parti in ordine all’esplorazione del successivo giudizio di merito ed è comunque soggetto a caducazione per effetto delle azioni, sempre possibili, di revoca o di modifica di esso. Per tale ragione si parla di instabilità in diritto della tutela cautelare, potendo sempre il provvedimento essere rimesso in discussione dalla successiva pronuncia di merito (nonchè all’accoglimento dell’istanza di revoca o modifica successive), di talché si sostiene che l’autonomia della misura cautelare sia solo di tipo cronologico e non anche di tipo funzionale. Non può infatti ignorarsi che la migliore dottrina e la miglior giurisprudenza valorizzano una nozione di tipo “funzionale” della strumentalità cautelare, ritenendo che la riforma legislativa sopra richiamata non abbia fatto perdere ai provvedimenti di cui all’art. 669 nonies c.p.c. comma sei, la loro natura cautelare, avendo unicamente comportato un allentamento della tradizionale, stretta e rigida “concatenazione temporale” tra procedimento cautelare di successivo giudizio di merito (tanto da esser stati definiti provvedimenti cautelativi a concatenazione temporale debole).
Precisate dai ricorrenti nei termini sopra indicati domanda di merito e domanda cautelare, deve dunque verificarsi l’esistenza del necessario vincolo di strumentalità cautelare e, nello specifico, se la rimessione della questione di legittimità costituzionale sollevata risulti funzionale in via immediata e diretta ad impedire la dedotta lesione del diritto elettorale esercitabile dai ricorrenti in sede referendaria.
Fatta applicazione dei principi evocati al caso in esame, la determinazione non può che essere negativa per molteplici ragioni, la prima delle quali è di ordine temporale.
Occorre infatti porre mente al fatto che lo svolgimento delle operazioni di referendum costituzionale devono svolgersi all’interno di scansioni temporali delimitate da termini perentori, predeterminati a mente dell’art. 15, commi uno e due, legge n. 352/1970 (tanto da essere legislativamente ammesso il rinvio di operazioni oltre i termini assegnati al solo fine di consentire l’abbinamento di un referendum già indetto con quello eventualmente proposto in relazione ad altra legge di revisione costituzionale).
Com’è noto, la presidenza del Consiglio dei Ministri ha individuato nel 4/12/2016 la data per lo svolgimento delle operazioni elettorali referendarie. È di palmare evidenza che la rimessione della questione di legittimità costituzionale proposta non potrebbe portare ad una pronuncia della Corte in termini utili in relazione al compimento delle operazioni di voto, data la necessità del rispetto dei tempi processuali normativamente assegnati per l’avvio del procedimento valutativo innanzi alla Corte Costituzionale.
L’eventuale accoglimento del rimedio cautelare richiesto si rivela, dunque, del tutto ininfluente all’assolvimento dei fini espressamente perseguiti dalla tutela anticipatoria oggetto della domanda cautelare; ne deriva l’insussistenza del nesso funzionale tra la misura pretesa in via di urgenza
dall’A.G.O. (rimessione degli atti alla Corte Costituzionale) e la tutela nel procedimento principale del diritto che si assume essere leso e, finanche, come si vedrà, della strumentalità tra la stessa rimessione e il vero “provvedimento cautelare” in realtà perseguito dai ricorrenti.
Consapevoli, e non poteva essere altrimenti, dell’insuperabile sbarramento posto dal dato temporale della celebrazione del giudizio di legittimità costituzionale, gli odierni ricorrenti evocavano l’eventualità che la Corte costituzionale, rimessa ad essa la questione, potesse avvalersi “anche d’ufficio -occorrendo in via analogica- dei poteri di sospensione ad essa attribuiti dalla legge 87/1953 (art. 35- 40) … ai fini della sospensione degli atti del procedimento referendario” (pag. 6, ricorso).
Chiarito, a domanda del giudicante, stante la non lineare formulazione del paragrafo di riferimento, che il potere di sospensiva evocato era quello proprio dei giudici costituzionali, si osserva che intanto può ritenersi sussistente il collegamento funzionale tra provvedimento d’urgenza azionato a tutela del diritto che si assume essere leso in quanto sussista un collegamento diretto e immediato tra la capacità (inibitoria o satisfattiva) del rimedio richiesto in via d’urgenza e la tutela anticipatoria propria del rito cautelare azionato. Non è chi non veda che il vero obiettivo cautelare di ricorrenti, ossia la misura in grado di garantire il soddisfacimento in via anticipata e temporanea del diritto fatto valere, si identifica, in realtà, con l’adozione di un provvedimento giurisdizionale emesso da altra Autorità (Corte costituzionale), per ciò stesso, e in tutta evidenza, estraneo ai poteri di intervento della A.G. adita.
Si osserva solo a margine, non competendo certo alla scrivente la valutazione dei provvedimenti ritualmente adottabili dai giudici costituzionali, che le norme invocate da parti ricorrenti (artt. 35 e 40 legge n. 87/1953) sono testualmente riferibili ad un potere di sospensione della legge esercitabile dalla Corte solo in caso di “contrasto di una legge approvata dal Consiglio regionale con gli interessi nazionali o con quelli di altre Regioni” (art. 35) o di “conflitto di attribuzione tra Stato Regione, ovvero tra Regioni” (art. 40), fattispecie non sovrapponibili a quella oggetto del presente procedimento.
Si ricorda che il potere di sospensiva, di rado invocato innanzi alla Corte, trova origine nella novella legislativa introdotta ad opera della legge n.131/2003, cd. Legge La Loggia, il cui art. 9, comma quattro, modificando l’art. 35 legge n. 87/1953 prevede che nel giudizio di costituzionalità in via principale, limitatamente ai casi suddetti, la Corte possa sospendere la legge impugnata qualora l’esecuzione di quest’ultima sia suscettibile di comportare rischi di un pregiudizio irreparabile all’interesse pubblico per contrasto con l’ordinamento giuridico della Repubblica o di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini. Nei rari casi di esame e di applicazione della presente disposizione ( cfr. ord. Corte Cost. n. 107/2010) la Corte ha avuto modo di affermare che a tali requisiti, integranti il periculum, deve accompagnarsi al requisito del fumus, analogamente a quanto avviene per i giudizi cautelari ordinari. A lato di tali requisiti, i giudici costituzionali, applicando lo stesso criterio utilizzato dal Tribunale costituzionale federale tedesco, il cd. Abwagungsmodell, hanno ritenuto di dover valutare ai fini dell’esercizio del potere di sospensiva della legge, un confronto tra le due opposte ipotesi di accoglimento e di reiezione dell’istanza di sospensiva, valutando comparativamente le conseguenze della sospensione e di quelle della mancata sospensione, ed in particolare le conseguenze derivanti dalla mancata applicazione della legge sospesa e quelle conseguenti alla continua applicazione della legge non sospesa, affermando l’ammissibilità e la fondatezza del rimedio cautelare solo qualora i danni prodotti dalla continua applicazione (qualora la legge non sospesa venga poi dichiarata incostituzionale) superino i danni derivanti dalla provvisoria sospensione (qualora la legge sospesa venga poi riconosciuta non contrastante con la Costituzione). A prescindere dai paventati profili di incostituzionalità del citato articolo 35 laddove il Legislatore configura il potere di attivazione in termini officiosi, non può non rilevarsi come nei pochi casi portati alla cognizione dei giudici costituzionali, la Corte non sia giunta, salvo che nel caso sopraccitato, rigettandolo, all’esame nel merito della questione. Non constano precedenti di accoglimento dell’istanza di sospensiva, suscettibile di manifestarsi come ipotesi assai rara per le sue gravissime conseguenze, ossia privare temporaneamente di efficacia un atto legislativo prima della conclusione del giudizio sulla costituzionalità di tale atto (giudizio che potrebbe in ipotesi non concludersi nel senso della fondatezza), e perciò determinare una conflittualità tra la Corte Costituzionale e l’organo legislativo (statale o regionale). In altri termini, il giudice costituzionale mostra di considerare il suddetto istituto come strumento da usare in casi gravissimi e presumibilmente rari, in cui un atto legislativo rischi di produrre un macroscopico pregiudizio all’interesse pubblico, all’ordinamento giuridico della Repubblica o ai diritti dei cittadini e tale rischio emerge in maniera inequivocabile. Valutati i precedenti giurisprudenziali, numericamente non elevati e conclusisi per la maggior parte dei casi con sentenza di merito in cui si dava atto dell’assorbimento dell’originaria questione cautelare nella pronuncia di merito, ovvero di non luogo a provvedere, può affermarsi che il diritto costituzionale esprime ad oggi l’intento di considerare il suddetto istituto come extrema ratio.
Quanto osservato consente di superare l’allegazione dei ricorrenti sulla necessità di adire l’A.G.O. in via strumentale, non ammettendo l’ordinamento il ricorso diretto del cittadino alla Corte Costituzionale. La domanda dei ricorrenti, pur non avendolo essi esplicitato, presuppone dunque la configurabilità di un procedimento ex art. 700 c.p.c. strumentale non già alla tutela azionabile nel procedimento principale, bensì all’ottenimento di un ulteriore e diverso provvedimento cautelare, unico e vero obiettivo d’urgenza avuto di mira dei ricorrenti, da emanarsi a cura di altra Autorità.
Ritiene il Tribunale che, da un lato, lo schema procedurale, rigido negli obiettivi funzionali perseguibili con il procedimento cautelare, non possa essere piegato al raggiungimento di risultati mediati, risultando la soddisfazione in via d’urgenza richiesta indissolubilmente connessa in via diretta con la tutela oggetto del procedimento principale. Dall’altro, l’effettivo risultato “cautelare” avuto di mira dai ricorrenti (ossia la sospensione per operazioni referendarie) cui dovrebbe provvedere la Corte Costituzionale, poggia sull’adozione di una misura priva di specifico e chiaro fondamento normativo, evocata in via meramente analogica, priva altresì di qualsivoglia significativo precedente per i diversi casi regolati dagli artt. 35 e 40 citati.
Quanto osservato caratterizza ulteriormente il difetto funzionale e diretto tra il provvedimento cautelare richiesto e l’immediata tutela desiderata dai ricorrenti.
Corre peraltro l’obbligo di sottolineare che nelle deduzioni di parti ricorrenti oggetto delle prospettata sospensione in via d’urgenza non sarebbero tanto le norme regolatrici delle operazioni referendarie e delle quali si allega l’illegittimità costituzionale, da deferire alla Corte, bensì il decreto di indizione del referendum emesso dal Presidente della Repubblica, come precisato in sede di discussione in udienza.
Ora, va ribadito che anche sotto tale profilo difetterebbe il vincolo di strumentalità cautelare.
Occorre por mente alla classificazione del provvedimento presidenziale, indefettibile presupposto al fine di valutare l’ammissibilità e la fondatezza dell’istanza di sospensiva dello stesso; pare al Tribunale di doversi affermare l’insindacabilità degli atti emanati dal Presidente della Repubblica, fatta eccezione per gli atti di alta amministrazione, nel cui novero non può ascriversi il decreto presidenziale in oggetto.
Affermavano ancora i ricorrenti in sede di discussione che, una volta ritenuta non manifestamente infondata dal Tribunale adito, e ritualmente sollevata innanzi alla Corte, la questione di legittimità costituzionale delle norme referendarie in contestazione, “il Presidente della Repubblica o gli organi costituzionali convenuti potrebbero intervenire in autotutela eliminando l’illegittimità”.
A prescindere da qualsivoglia considerazione in ordine alla opinabilità di un richiamo alla “autotutela” -rimedio proprio della P.A., volto a sanare l’illegittimità degli atti amministrativi emanati- per atti costituenti estrinsecazione del potere politico e legislativo, osserva il giudicante che, in altri termini, l’effetto tutelante del provvedimento cautelare richiesto dovrebbe risolversi in una sorta di moral suasion sul Presidente della Repubblica e sui vertici del potere esecutivo e legislativo affinché, mediante l’emanazione di atti politici, rispondano alle istanze cautelari che parrebbero identificarsi, dalle precisazioni svolte in sede di udienza, nella revoca dell’indetto referendum, più che nella scomposizione della domanda referendaria in più quesiti.
Non pare al Tribunale necessario spendere molte parole in ordine alla non accoglibilità della argomentazione proposta da parti ricorrenti; la richiesta di piegare un provvedimento dell’attività giudiziaria al fine immediato di creare “pressione” sul potere politico è inammissibile.
Argomentavano ancora i ricorrenti che non accogliere l’istanza cautelare in oggetto si risolverebbe in un difetto di tutela giurisdizionale, non conoscendo l’ordinamento il ricorso diretto del cittadino alla Corte costituzionale; in tal caso residuerebbe ai ricorrenti la sola possibilità di adire la Corte EDU.
Osserva il Tribunale, quanto alla tutela nel merito, che il rigetto cautelare ante causam -oltre a non impedire la riproposizione dell’istanza cautelare per ragioni diverse- ovviamente, non incide in alcun modo sulla possibilità di presentare la domanda principale di tutela nel merito del diritto azionato, precisato in termini di lesione del diritto di voto del cittadino elettore.
Ritiene il giudicante vi sia una ulteriore ragione di inammissibilità del presente ricorso cautelare, dovendosi por mente, sia pure nell’angusto ambito della cognizione sommaria propria del presente giudizio, alla natura dell’organo referendario e del provvedimento dallo stesso adottato in tema di legittimità del quesito elettorale, anche sotto il profilo del necessario rispetto dei principi costituzionali di cui agli artt. 1, 48 e 138 Cost.
Richiamando l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale, e dalla stessa Corte di Cassazione, in ordine alla classificazione dell’organo e dei provvedimenti di competenza dell’Ufficio Centrale per il Referendum, pare doversi accedere alla natura giurisdizionale dell’Ufficio Centrale e dei provvedimenti dello stesso adottati (Corte Cost. sent. n. 164/2008; sent. n. 334/2004; ord. n. 343/2003).
Trattasi, invero, di organo che per composizione e struttura, si colloca in posizione di terzietà e di indipendenza rispetto alle parti, indifferente ad esse ed agli interessi trattati, volto ad esplicare un’attività diretta alla soddisfazione di interessi pubblici generali garantendo l’osservanza della legge su un piano diverso rispetto all’esercizio delle funzioni amministrative, risultando l’attività svolta funzionale al controllo ed alla garanzia del corretto funzionamento del sistema ordinamentale generale dello Stato sulla base di criteri obiettivi e precostituiti, secondo le valutazioni da ultimo espresse dal giudice amministrativo nella sentenza n. 10445/2016, pubblicata il 20/10/201, emessa dal TAR Lazio, da condividersi, sia pure per la sola parte che qui rileva (e considerando che in quella sede veniva impugnato il Decreto del Presidente della Repubblica di indizione del referendum), ossia quella relativa alla individuazione dell’Autorità demandata alla valutazione di legittimità del quesito.
Innanzi all’A.G.A. le parti avevano “evocato questioni di illegittimità costituzionale della legge 352/1970, in ipotesi riconducibili alla predeterminazione del quesito in base all’autoqualificazione della legge, in termini di revisione costituzionale popolare nella legge costituzionale dipendentemente dal contenuto effettivo e sostanziale della stessa (la cui scelta è rimessa alla determinazione del proponente e della maggioranza parlamentare), e del titolo della stessa, tenuto conto dell’art. 138 Costituzione, di cui la legge 352/1970 costituisce attuazione, e tenuto altresì conto dei principi che devono presiedere all’esercizio del diritto di voto, tra cui quelli di libero convincimento e consapevole manifestazione della volontà popolare, nonché della finalità del referendum costituzionale, volto, anche, alla tutela della minoranza parlamentare”, le valutazioni in punto di legittimità del quesito referendario devono intendersi esclusivamente demandate per legge al vaglio della suddetto Ufficio Centrale in sede di applicazione delle norme qui denunciate.
Ciò chiarito, deve porsi il problema -funzionale alla determinazione di ammissibilità della tutela cautelare innominata richiesta con il ricorso in esame- se, come paiono prospettare i ricorrenti, non vi sarebbe azione alcuna avverso le determinazioni assunte dall’Ufficio Centrale in punto di legittimità del quesito.
Val la pena premettere che è stata ammessa la legittimazione attiva del suddetto organo a sollevare questioni incidentali di costituzionalità innanzi alla Corte Costituzionale (ex plurimis: Corte Cost. sent. n. 278/2011, con specifico riferimento alle questioni inerenti alla legge n. 352/1970 e, in generale, si veda Corte Cost. nn. 181/200015; 126/1976). Deve poi ritenersi esperibile, in generale, anche il rimedio della revocazione ex artt. 391 bis e 391 ter c.p.c. delle ordinanze adottate proprio in materia di referendum costituzionale, come espresso dallo stesso organo deliberante (ordinanza Ufficio Centrale per il Referendum 11/11/2008; Corte cost. sent. n. 17/1986). In assenza di carattere contenzioso, non parrebbero, allo stato, applicabili i principi generali di rito ordinario (ad esempio attraverso una legittimazione del terzo all’intervento in sede di procedimento) in favore del cittadino elettore che deduca l’illegittimità del quesito nei termini proposti dai comitati referendari, con conseguente potenziale lesione del diritto elettorale; giova, tuttavia, ricordare che l’ordinamento riconosce a tutti i cittadini referendari, e quindi anche agli odierni ricorrenti, di raccogliere e depositare in termini le sottoscrizioni richieste ex lege per promuovere il referendum con l’inerente domanda di ammissibilità del quesito (o dei quesiti), con conseguente legittimazione all’eventuale instaurazione di un successivo procedimento costituzionale.
Le determinazioni assunte rendono dunque di ardua configurazione l’ammissibilità di un ricorso in via d’urgenza laddove gli interessati non hanno ritenuto di intervenire in data antecedente alla presentazione del ricorso, nelle sedi, nei tempi e nei modi demandati, alla pronta tutela del diritto che assumono essere leso.
Solo per il caso non si intenda condividere le argomentazioni sin qui espresse, si osserva quanto segue.
Gli articoli della legge 352/1970 “Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo” denunciati sotto il profilo costituzionale degli odierni ricorrenti presentano il testo di seguito riportato: “Art. 4 La richiesta di referendum di cui all’articolo 138 della Costituzione deve contenere l’indicazione della legge di revisione della Costituzione o della legge costituzionale che si intende sottoporre alla votazione popolare, e deve altresì citare la data della sua approvazione finale da parte delle Camere, la data e il numero della Gazzetta Ufficiale nella quale è stata pubblicata. La predetta richiesta deve pervenire alla cancelleria della Corte di cassazione entro tre mesi dalla pubblicazione effettuata a norma dell’articolo 3.
Art. 12 Presso la Corte di cassazione è costituito un ufficio centrale per il referendum, composto dai tre presidenti di sezione della Corte di Cassazione più anziani nonché dai tre consiglieri più anziani di ciascuna sezione. Il più anziano dei tre presidenti presiede l’ufficio e gli altri due esercitano le funzioni di vice presidente (1). L’Ufficio centrale per il referendum verifica che la richiesta di referendum sia conforme alle norme dell’articolo 138 della Costituzione e della legge. L’Ufficio centrale decide, con ordinanza, sulla legittimità della richiesta entro 30 giorni dalla sua presentazione. Esso contesta, entro lo stesso termine, ai presentatori le eventuali irregolarità. Se, in base alle deduzioni dei presentatori da depositarsi entro 5 giorni, l’Ufficio ritiene legittima la richiesta, l’ammette. Entro lo stesso termine di 5 giorni, i presentatori possono dichiarare all’Ufficio che essi intendono sanare le irregolarità contestate, ma debbono provvedervi entro il termine massimo di venti giorni dalla data dell’ordinanza. Entro le successive 48 ore l’Ufficio centrale si pronuncia definitivamente sulla legittimità della richiesta.
Per la validità delle operazioni dell’ufficio centrale per il referendum è sufficiente la presenza del presidente o di un vice presidente e di sedici consiglieri (2).
(1) Comma così sostituito dall’art. 1, D.L. 1° luglio 1975, n. 264 (Gazz. Uff. 3 luglio 1975, n. 175) convertito in legge con L. 25 luglio 1975, n. 351 (Gazz. Uff. 9 agosto 1975, n. 212). (2) Comma così sostituito dall’art. 2, D.L. 1° luglio 1975, n. 264 (Gazz. Uff. 3 luglio 1975, n. 175) convertito in legge con L. 25 luglio 1975, n. 351 (Gazz. Uff. 9 agosto 1975, n. 212).
Art. 16 Il quesito da sottoporre a referendum consiste nella formula seguente: «Approvato il testo della legge di revisione dell’articolo… (o degli articoli …) della Costituzione, concernente … (o concernenti …), approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero … del …»; ovvero: «Approvate il testo della legge costituzionale … concernente … approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero … del … ».
In estrema sintesi, parti ricorrenti, oltre a denunciare il ricorso allo strumento di cui all’art. 138 Cost. come sopra evidenziato, lamentavano la violazione della libertà del voto del singolo cittadino, garantita dagli artt. 1 e 48 Cost., nella parte in cui il quesito pone l’elettore di fronte all’alternativa secca tra prendere o lasciare l’intero pacchetto senza possibilità di valutazione dei diversi componenti, sulla base dell’erroneo assunto che la valutazione della combinazione tra i diversi contenuti sia prerogativa assoluta ed insindacabile del Parlamento, facilmente evitabile, nella tesi proposta, laddove fosse normativamente presidiata l’esigenza a che l’oggetto del referendum fosse necessariamente omogeneo, con conseguente inammissibilità di quesiti posti su molteplici questioni insuscettibili di essere ridotte ad unità, non potendosi distorcere uno strumento di democrazia diretta, qual è l’istituto referendario, in uno strumento di democrazia rappresentativa con il quale, nella sostanza, si chiedano pronunciamenti plebiscitari nei confronti di complesse scelte politiche parlamentari.
Non pare inutile ricordare che la vigente costituzione, definita “lunga e rigida”, è garantita oltre che dalla previsione di organi e procedure di controllo della conformità delle fonti normative sub costituzionali ai principi costituzionali, dalla previsione di procedimenti speciali attraverso i quali apportare al dettato costituzionale modifiche che dovessero rendersi necessarie per il mutare delle condizioni sociali e politiche nel tempo.
La funzione di revisione costituzionale è attribuita dalla Costituzione al Parlamento, mediante la previsione di un procedimento, speciale per l’oggetto normativo -leggi di revisione costituzionale, propriamente identificabili in quelle destinate a modificare il dettato costituzionale, mediante la modifica, integrazione o soppressione di alcune parti della Costituzione, e leggi costituzionali, con ciò intendendosi quelle dirette ad attuare alcuni particolari istituti dell’attuale dettato costituzionale- e per le regole che ne scandiscono le varie fasi, regolato dall’art. 138 Cost.
Il procedimento si compone di due fasi, una necessaria, afferente l’attività svolta in sede parlamentare, ed una, solo eventuale, che vede il coinvolgimento del corpo elettorale attivato mediante l’istituto referendario. Ove la maggioranza ottenuta nelle Camere in seconda deliberazione sia assoluta (metà più uno), anziché quella di due terzi dei componenti, il testo legislativo può essere sottoposto a referendum, qualora ne facciano richiesta 1/5 dei componenti di una Camera, 500.000 elettori, ovvero cinque Consigli Regionali.
Il procedimento referendario è, dunque, meramente eventuale, di carattere sospensivo (posto che la sua indizione sospende il perfezionamento del procedimento di revisione fino al momento in cui si sia svolta la consultazione popolare con esito favorevole alla revisione stessa) di natura oppositiva, posta a tutela delle minoranze, potendo gli interessati chiedere di sottoporre a consultazione popolare un testo votato dal Parlamento -definito da parte di rilievo della dottrina come una sorta di “appello al popolo”- per ostacolare una revisione costituzionale che non è riuscita a trovare un consenso anche fra le minoranze.
Proprio sotto tale profilo parti ricorrenti, che pure tanto insistevano sulla natura “oppositiva” dell’istituto, ed in particolare sulla sua funzione tutelante nei confronti di minoranze dissenzienti, non ne traevano le dovute conseguenze giuridiche; dovrebbe, invero, consentirsi agli elettori di “sanzionare” con un voto diretto una riforma costituzionale approvata “a colpi di maggioranza”, ove si ritenga che la stessa abbia ingiustamente pretermesso le istanze e le osservazioni di rilievo costituzionale formulate dalla parte minoritaria.
La mancata previsione di un quorum si iscrive comunemente proprio sotto tale profilo di tutela, posto che una minoranza attiva e ben organizzata può prevalere, in assenza di soglie di sbarramento sull’entità della partecipazione al voto, su un forte astensionismo dell’elettorato dei partiti di maggioranza, proprio per tale appartenenza meno motivati alla partecipazione referendaria.
Deve dunque affermarsi che la scelta dei padri costituenti -per quanto criticata dagli odierni ricorrenti- individuava nel Parlamento l’organo deputato all’esercizio della funzione di revisione costituzionale, riservando un ruolo solo eventuale al corpo elettorale.
Condivisibile o meno che sia la scelta operata in sede di formazione della Costituzione repubblicana, non può prescindersi dalla valutazione compiuta in sede di redazione dell’art. 138 quale elemento meramente eventuale dell’intero procedimento di revisione, dovendosi prendere atto della volontà dei costituenti di riservare il potere di procedere a revisione costituzionale all’organo rappresentativo, cioè ai soggetti istituzionali appartenenti alla medesima categoria cui debbono ascriversi gli artefici del processo costituente, attribuendo al corpo elettorale un potere d’intervento del tutto eventuale e residuo; in altri termini, l’art. 138 esprime una visione della Costituzione quale patto sociale frutto di intesa tra tutte le maggiori forze politiche del Paese, destinata ad essere sostenuta, garantita, e, se del caso, modificata dalle stesse, sottraendola non solo alla libera disponibilità di ridotte maggioranze politiche contingenti, ma anche ad estemporanei interventi diretti del corpo elettorale.
L’idoneità della procedura prevista dall’art.138 Cost. a consentire modifiche ad ampio spettro del testo costituzionale è tema dibattuto in dottrina.
Si sottolinea che la norma non presenta nel proprio testo alcun limite espresso all’esercizio del potere di revisione costituzionale, ravvisandosi, semmai, una demarcazione al successivo art. 139 che dispone che la forma repubblicana dello Stato non può essere modificata, nemmeno attraverso il ricorso allo speciale procedimento di revisione.
È stato affermato che accanto a tale unico limite espresso, la funzione di revisione costituzionale ne incontri altri, impliciti, rappresentati da quei principi costituzionali che caratterizzano il nostro ordinamento (in primo luogo il principio di sovranità popolare, il principio di unità indivisibilità dello Stato e, ovviamente, i diritti inviolabili della persona), quei principi, cioè, il cui sovvertimento sarebbe operabile solo attraverso un nuovo processo costituente un nuovo patto sociale radicalmente diverso da quello da cui ha avuto origine la Costituzione repubblicana.
Tra questi principi può con ragione iscriversi quello che caratterizza il procedimento di revisione regolato dal menzionato art. 138: riserva del potere decisionale al Parlamento, necessario coinvolgimento di un arco di forze politiche più ampio di quello che si identifica con la maggioranza di governo, un ruolo secondario del corpo elettorale.
L’esistenza di “principi supremi” non suscettibili di subire modifiche nel loro contenuto essenziale, neppure da parte delle norme internazionali di cui all’art. 10 Cost., e quindi neppure attraverso l’adozione di un procedimento di revisione ex art. 138 Cost., è stata espressamente riconosciuta dal giudice costituzionale ( sent. nn. 1146/1988 e 366/1991).
Ne deriva che il dato testuale e l’inquadramento sistematico dell’art. 138 Cost. non consentono di accedere alla lettura, frutto di un filtro eminentemente soggettivo che da tale dato prescinde, che di esse viene offerto dai ricorrenti.
Quanto all’evocazione della volontà dell’Assemblea costituente, in tesi di parti ricorrenti volta a configurare un procedimento di revisione “puntuale”, quindi ammissibile solo in relazione ad una sola disposizione per volta, richiede formularsi un duplice ordine di considerazioni.
Il primo, fondamentale, è dato dall’insuperabile tenore letterale della norma costituzionale, come detto, priva di limitazioni nel senso voluto dai ricorrenti.
Il secondo, comporta una necessaria precisazione sugli interventi svolti in tema da vari membri della Costituente, assai articolati e, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, contenenti significativi interventi a favore di un intervento di revisione anche assai ampio; si veda, ad esempio, quanto sostenuto dal costituzionalista Costantino Mortati laddove prospetta una distinzione tra “revisione totale della Costituzione” e una “revisione parziale”, richiedente procedimenti meno complessi, intendendo per la prima un intervento “in cui la modificazione interessi l’assetto fondamentale dello Stato”, dicotomia che esclude in radice una possibilità di revisione costituzionale consentita solo in relazione ad un singolo, o a pochi, articoli per volta, configurando, persino, la possibilità di una revisione con un contenuto di totale stravolgimento degli assi portanti dell’ordinamento costituzionale (verbali Assemblea, art.138, 15/1/1947). Può serenamente affermarsi che, per il caso che qui occupa, e nonostante l’indiscutibile ampiezza ed eterogeneità della riforma, tale ultima evenienza non pare ravvisabile, risultando immodificati i diritti inviolabili della persona, la natura parlamentare della Repubblica, il mantenimento di Camera e Senato (sia pure con le importanti modifiche apportate al secondo), l’autonomia del potere giudiziario (con aumentato ambito di intervento del vaglio di legittimità della Corte Costituzionale), il riconoscimento delle autonomie locali, il bilanciamento dei rapporti tra poteri, in particolare tra potere esecutivo e potere legislativo.
Il distillato dei principi sovra richiamati porta ad escludere, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, che non possa procedersi legittimamente ai sensi dell’art. 138 alla revisione costituzionale per parti tra loro non omogenee.
D’altro canto, data l’irragionevolezza, per le ragioni che verranno illustrate al capitolo che segue, di una revisione del testo costituzionale portata da tanti singoli referendum quanti sono gli articoli (o le materie) oggetto di modifica, e considerato che la Carta costituzionale non prevede una alternativa praticabile (considerato, altresì, che la soluzione più volte richiamata dai ricorrenti, ossia la creazione ex novo di appositi organi costituenti, oltre a non essere prevista in Costituzione, si è rivelata, nei precedenti che la storia repubblicana ha conosciuto, inadeguata al raggiungimento del fine costituente); considerato, infine, che, ad una sommaria delibazione della questione, pare arduo porre per via interpretativa, all’interno di un sistema di democrazia rappresentativa, un limite ulteriore a quelli espressamente posti dall’art. 138 Cost, (tracciante i confini all’esercizio della discrezionalità politica in sede di riforma costituzionale); tanto premesso, non si rinvengono margini argomentativi per accedere alle tesi offerte da parti ricorrenti.
Non residuano con ciò dubbi sulla legittimità costituzionale delle norme della legge n. 352/1970 regolanti il quesito referendario, risultando funzionali all’attuazione del procedimento di revisione costituzionale disciplinato dall’art. 138 Cost.
Quanto al merito delle doglianze di illegittimità costituzionale sollevate, si osserva quanto segue.
Ritiene il Tribunale opportuno ricordare che la particolare ampiezza della discrezionalità di cui gode il Legislatore in materia di leggi elettorali, nella cui categoria, da intendersi in senso ampio, debbono necessariamente iscriversi le leggi di regolazione della procedura referendaria, ivi inclusa quella costituzionale, non comporta di per sé che le relative norme ordinarie siano sottratte al sindacato di costituzionalità, non potendo l’ordinamento riconoscere all’interno delle norme ordinarie zone franche, in grado di sfuggire al giudizio di conformità ai principi costituzionali. La scelta operata dalla Costituente di non inserire un’espressa disciplina dei meccanismi elettorali in costituzione, rimettendo al Legislatore ordinario la scelta e la configurazione dei relativi sistemi, “non significa che le norme legislative in materia non debbano essere concepite in un quadro coerente con i principi fondamentali dell’ordinamento e, in particolare, con il principio costituzionale di uguaglianza, inteso come principio di ragionevolezza ( art.3 Cost.) E con il vincolo costituzionale imposto al legislatore di rispettare i parametri del voto personale, il quale, libero e diretto (artt. 48, 56 e 58 Cost.) In linea con una consolidata tradizione costituzionale comune agli Stati membri (art.3, prot1 CEDU)”; per le medesime ragioni, non potrebbe tollerarsi un caso di conclamata illegittimità costituzionale al solo fine di evitare una lesione al principio di continuità e costante operatività degli organi costituzionali, al cui funzionamento quelle leggi sono indispensabili, dovendosi piuttosto mirare al ripristino nella legge elettorale di contenuti costituzionalmente obbligati senza compromettere la permanente idoneità del sistema elettorale per garantire il funzionamento dell’ordinamento costituzionale mediante l’utilizzo di poteri a disposizione dell’organo giurisdizionale supremo, ovvero dal Legislatore stesso, in attuazione dei principi enunciati dalla stessa Corte costituzionale ( Cass. ord. n. 12060/2013).
Anche le norme referendarie debbono dunque sottostare ai principi richiamati.
Allegavano parti ricorrenti che gli artt. 4,12 e 16 legge n. 352/1970 debbono ritenersi illegittimi nella parte in cui non prevedono che “qualora la legge costituzionale sottoposta a referendum abbia contenuto plurimo ed eterogeneo, agli elettori debbano essere sottoposti tanti quesiti distinti, a cui l’elettore possa rispondere affermativamente o negativamente, quanti sono gli articolo e le parti della legge che abbiano oggetti omogenei “.
A conforto della tesi proposta i ricorrenti richiamavano un precedente giurisprudenziale della Corte Costituzionale che ha avuto occasione di affermare che “corrisponde alla naturale funzione dell’istituto l’esigenza che il quesito da porre agli elettori venga formulato in termini semplici e chiari, con riferimento ai problemi affini e ben individuati; che nel caso contrario siano previste la scissione o anche l’integrale reiezione delle richieste non corrispondente un tale modello” sul presupposto che “se è vero che il referendum non è fine a se stesso, ma tramite della sovranità popolare, occorre che quesiti posti agli elettori siano tali da esaltare o da coartare le loro possibilità di scelta … è manifesto che un voto bloccato su molteplici complessi di questioni, insuscettibili di essere ridotte ad unità contraddice il principio democratico, incidendo di fatto sulla libertà del voto stesso”; era, in sintesi, stigmatizzato che un referendum di natura abrogativa diventasse “distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie” (Corte Cost. n. 16/1978).
Ritiene il Tribunale che l’evocazione del precedente costituzionale sia mal posta, non potendosi applicare de plano i principi prescritti per il referendum di natura abrogativa, regolato dall’art. 75 Cost. a quello costituzionale, disciplinato dall’art.138, stante l’ontologica differenza dei due istituti che, pacificamente, hanno natura diversa, come si evince dal semplice dato testuale delle norme in questione.
Non si ritiene, dunque, corretto estendere per analogia la disciplina propria del referendum abrogativo ex art. 75 Cost., come integrata dalle statuizioni della Corte evocate, al referendum costituzionale ex art. 138 Cost .
L’art. 75 Cost. fa riferimento all’ abrogazione totale o parziale di una legge o di un atto avente valore di legge, mentre l’art. 138.2 Cost. fa esplicito riferimento alla legge sottoposta a referendum, così come l’art. 138.1 Cost. si riferisce al fatto che le leggi stesse sono sottoposte a referendum.
La diversità di disciplina costituzionale trova la propria ragione d’essere proprio perché la sostanza dei due istituti è differente, nel senso che, come ha avuto modo di sottolineare la dottrina costituzionalistica, il referendum costituzionale ha ad oggetto una delibera legislativa del Parlamento non ancora produttiva di effetti, così che lo stesso referendum si inserisce a pieno titolo nell’iter di formazione della legge, mentre il referendum abrogativo, se approvato, è idoneo a costituire una vera e propria fonte del diritto, ovvero un elemento esterno che si oppone a un procedimento legislativo già concluso. Non solo: la natura di “fase procedimentale” del referendum costituzionale è facilmente deducibile da una particolare qualifica dello stesso, cioè di referendum di tipo sospensivo, ovvero sospensivo del procedimento di revisione costituzionale fino alla consultazione popolare.
Sotto tale profilo emerge in piena evidenza la differente posizione che nella formulazione del quesito assumono i comitati promotori del referendum: quello costituzionale non può avere ad oggetto che la delibera parlamentare di modifica assunta nel rispetto delle forme di cui all’alt. 138 Cost. ; nè potrebbe avere un contenuto diverso, competendo ai promotori solo un potere di iniziativa per sollecitare un pronunciamento del corpo elettorale; in caso di referendum abrogativo, per contro sono i promotori, con il proprio quesito, a determinare autonomamente i confini dell’innovazione normativa che, per abrogazione, si vuole produrre.
Analoghe differenze si ravvisano nel diritto di voto esprimibile in ciascuna delle due fattispecie. Il corpo elettorale è tenuto, ex art. 138, a esprimere il proprio assenso o dissenso rispetto alla promulgazione di una legge una volta che la stessa sia già stata oggetto di votazione da parte del potere legislativo al fine di consentirne l’entrata in vigore una volta promosso il referendum, e non ex novo, al fine di ottenerne la caducazione, come invece accade nel caso del referendum abrogativo.
Risulta, per contro, pertinente il richiamo effettuato dall’Avvocatura al precedente giurisprudenziale identificato nella sentenza della Corte n. 445/2005, emessa in tema di referendum ex art. 123, comma terzo, Cost. Con tale pronuncia la Corte ha escluso la possibilità di proporre un quesito parziale in quanto il tenore letterale del terzo comma dell’articolo 123 Cost. rende palese che il referendum ivi disciplinato si riferisca alla complessiva deliberazione statutaria, e non a singole sue parti. I due istituti (referendum indetto a seguito di procedimento di revisione costituzionale e referendum statutario in sede di approvazione di nuovi Statuti regionali) costituiscono entrambi una fase eventuale del procedimento legislativo; l’oggetto del quesito, in entrambe le fattispecie, è definito obbligatoriamente dalla costituzione, ed è identificato, per il primo, nella “legge di revisione” e nel secondo, nello “Statuto regionale”, non potendo in entrambi i casi essere intaccate singole parti delle complessive deliberazioni della pronuncia referendaria e, prima ancora, da parte dei promotori in sede di formulazione del quesito.
In entrambi i casi il corpo elettorale (rectius: corpo referendario, caratterizzato da unità nazionale, non risultando operare sulla base di collegi territoriali) è chiamato attraverso il voto ad esercitare una forma di controllo politico sul complesso della deliberazione parlamentare o consigliare, e compete al voto popolare una valutazione complessiva -positiva o negativa- sulla riforma costituzionale proposta o sullo Statuto regionale.
Non pare corretto attribuire, come sostengono i ricorrenti, al corpo elettorale un potere di composizione del (nuovo) testo costituzionale che ad esso non pare spettare, come la stessa Corte Costituzionale ha lasciato intendere nella sentenza n. 496/2000 in tema di referendum oppositivo/confermativo: “è indubitabile che la decisione politica di revisione costituzionale è rimessa primariamente dall’art. 138 alla rappresentanza politico parlamentare. All’interno del procedimento di formazione delle leggi costituzionali il popolo interviene infatti solo come istanza di freno, di conservazione e di garanzia, ovvero di conferma successiva, rispetto ad una volontà parlamentare di revisione già perfetta che, in assenza di un pronunciamento popolare, consolida comunque i propri effetti giuridici. Se ne possono desumere due fondamentali proposizioni: la prima di esse è che il popolo in sede referendaria non è individuato dalla Costituzione come propulsore della innovazione costituzionale. La seconda è che l’intervento del popolo non è a schema libero, poiché l’espressione della sua volontà deve avvenire secondo forme tipiche e all’interno di un procedimento, che, grazie ai tempi, alle modalità e alle fasi in cui è articolato, carica la scelta politica del massimo di razionalità di cui, per parte sua, è capace e tende a ridurre il rischio che tale scelta sia legata a situazioni contingenti”.
E ben si comprende poi che la natura oppositiva del referendum costituzionale, ripetutamente sostenuta dallo stesso ricorrente Onida, verrebbe a mancare, e ad essere irrimediabilmente snaturata laddove si ammettesse la parcellizzazione dei quesiti; l’elettore, libero di scegliere su ogni singolo quesito, finirebbe in tal caso per intervenire quale organo propulsore dell’innovazione costituzionale contro la lettera della norma (oltre che a favorire l’ingresso di una contrattazione politica di carattere compromissorio, evenienza giustamente paventata dagli stessi ricorrenti).
Non possono poi essere ignorate le ulteriori valutazioni e le conseguenze negative derivanti da una determinazione di segno contrario.
Anche delle riforme costituzionali di ampio respiro, come possono essere revisioni della Costituzione interessanti più articoli e più titoli -da definirsi pur sempre revisioni parziali- il referendum nazionale non potrà che riguardare la deliberazione parlamentare nella sua interezza, non potendosi disarticolare l’approvazione o il rigetto di un testo indiviso alla sua fonte, le cui diverse parti sono in rapporto di reciproca interdipendenza.
Sotto tale profilo deve essere tenuto presente che le disposizioni di una legge di revisione, ancorché quest’ultima si occupi di articoli della Costituzione fra loro diversi e regolanti materie potenzialmente non omogenee, non possono per ciò stesso ritenersi prive di interconnessione.
L’interdipendenza renderebbe artificioso e, in ultima analisi, illegittimo, procedere ad eventuali ripartizioni di quesiti.
Lo si afferma a prescindere dalla oggettiva difficoltà e controvertibilità di definizione di “omogeneità” di articoli e materie, così come dei criteri di eventuale raggruppamento o scorporamento dei singoli quesiti. Val la pena sottolineare che neppure i ricorrenti offrivano soluzioni radicate in norme dell’ordinamento -e per la verità non paiono neppure porsi il relativo problema- circa l’attribuzione soggettiva dei poteri di frazionamento del quesito, rectius: della revisione voluta dal Parlamento; sia che si voglia attribuire il compito di formulazione dei quesiti separati dai comitati promotori, sia che si intenda individuare nell’Ufficio Centrale del Referendum l’organo a ciò deputato, va affermato che in tal caso i soggetti indicati agirebbero al di fuori dei poteri loro espressamente attribuiti dall’ordinamento.
Non può sottacersi che ogni Costituzione è patto fondante di una comunità statuale; corrisponde pertanto alla natura essenziale di ogni Carta costitutiva che ogni parte del patto, e quindi ogni singola materia trattata, sia strettamente legata, non solo nelle disposizioni adottate all’interno di ogni singolo argomento, ma anche alle altre varie materie che ne compongono l’intero testo, e che non possa prescindersi, neppure in sede referendaria, ad una scomposizione che alteri l’equilibrio complessivo delle reciproche interconnessioni avuto di mira dal Legislatore in funzione costituente. Una scelta di segno contrario aprirebbe il rischio a risultati costituenti una combinazione casuale di diverse scelte elettorali in grado di distruggere l’unità del patto approvato dal Parlamento; la desiderata scomposizione dei quesiti potrebbe condurre all’esito, statisticamente possibile, di molteplici combinazioni, anche casuali, frutto di scelte referendarie differenziate da elettore a elettore. Ciascuna di esse potrebbe essere in grado di portare, in dipendenza dei risultati elettorali raggiunti, persino ad un mutamento di significato giuridico delle espressioni normative presenti nel testo; in ogni caso, l’esito potenzialmente alternato di approvazione/dissenso in relazione ad ogni singola domanda referendaria, finirebbe per condurre ad una ineludibile distruzione dell’unità disegno di revisione approvato dal Parlamento, con buona pace della volontà dell’Assemblea costituente laddove optava per un esercizio della sovranità popolare in termini di rappresentanza indiretta per i casi di modifica della Costituzione ed assegnava al Parlamento il compito di progettare ed approvare estensione contenuti della revisione della Carta costituzionale.
Deve dunque condividersi l’osservazione formulata da parti resistenti, ossia che una artificiosa successione dei quesiti su parti separate del testo comporta un rischio intrinseco di esiti potenzialmente incoerenti in ragione della natura sistematica dell’intero dettato costituzionale. Ne deriva che la materia referendaria costituzionale, al fine di garantire la coerenza interna e la ragionevolezza complessiva del testo richiede l’applicazione del principio simul stabunt, simul cadent.
Si osserva ancora che la valutazione deve essere espressa indipendentemente dalla ravvisabilità di interdipendenza tra le materie trattate nella presente legge di revisione costituzionale, dovendosi individuare un criterio astrattamente valido per ogni procedimento di modifica costituzionale
Quanto alle conseguenze negative, non può non considerarsi che in caso di dissenso in ordine ad alcuni quesiti referendari parziali e non ad altri, in mancanza del riconoscimento di un potere di promulgazione parziale del Presidente della Repubblica, un voto elettorale non omogeneo su tutti i quesiti bloccherebbe la promulgazione della legge di revisione anche con riguardo alla parte non colpita dal quesito referendario.
Non ritiene dunque il Tribunale di ravvisare una manifesta lesione del diritto alla libertà di voto degli elettori per difetto di omogeneità dell’oggetto del quesito referendario
Osserva, ancora, il Tribunale che la prospettazione di parti ricorrenti dell’illegittimità costituzionale della legge n. 352/1970 pare, in ultima analisi, volta a superare o, comunque, a sanare attraverso la parcellizzazione dei quesiti ciò che viene ritenuto essere un illegittimo ricorso alla procedura di cui all’art. 138, illegittimità non ravvisabile per le ragioni dianzi esposte, ribadendo i ricorrenti in plurimi passaggi che l’illegittimità delle norme evocate si fonda essenzialmente nella prospettata coartazione dell’elettore “a dire un sì o un no comprensivi ad un testo contenente diversi oggetti, e
così ad approvare le singole proposte non condivise o a bocciare singole proposte condivise” ; per le medesime ragioni non è ravvisabile un vulnus portato dall’espressione di un voto referendario di carattere unitario al principio democratico fondamentale dell’esercizio della sovranità popolare.
Si osserva da ultimo sul punto in esame che i ricorrenti omettono di richiamare, in particolare in ordine alla ripetutamente invocata sentenza costituzionale n. 16/1978, quanto nella stessa affermato in punto di inammissibilità di richieste referendarie eterogenee. Invero la Corte associava tra i requisiti indefettibili per l’applicazione della sanzione di inammissibilità un’ulteriore condizione, ossia che il quesito da sottoporre al corpo elettorale contenga non solo una pluralità di domande eterogenee, ma che non sia ravvisabile tra esse una “matrice razionalmente unitaria”. La carenza richiesta si ravvisa qualora non sia riconoscibile “un criterio ispiratore fondamentalmente comune un principio, la cui eliminazione o permanenza viene fatta dipendere dalla risposta del corpo elettorale”, principio evocato da ultimo anche nella sentenza della Corte n. 16/2016). Ciò vale a dire che quand’anche si fosse rivolto al corpo elettorale un quesito su differenti contenuti normativi, nondimeno il quesito sarebbe, in applicazione delle statuizione rese, ammissibile, una volta identificato una matrice unitaria nei termini declinati dalla Corte.
Va sottolineato -prescindendo da qualsivoglia valutazione di merito della proposta di riforma costituzionale, trattandosi di questione estranea al presente procedimento e certamente non di competenza della A.G.- che ogni intervento legislativo che modifichi e ridefinisca diritti, doveri e funzioni delle istituzioni come disciplinati nella Carta, interferisce con l’architettura delineata dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali successivamente emanate. Ogni intervento, oltre a garantire il necessario rispetto dei principi fondamentali tracciati dalla Carta costituzionale, comporta il necessario bilanciamento dei molteplici interessi tutelati e il rispetto dei rapporti di equilibrio tra i poteri dello Stato (cfr. in senso conforme, Corte Cost. sent. n.62/2009). L’unitarietà indicata, a maggior ragione, deve potersi ravvisare sia nel rapporto tra le modifiche che si intendono apportare e il complessivo disegno costituzionale che dalla riforma deriverebbe, sia all’interno del complessivo intervento di revisione, contribuendo anch’esso senza ombra di dubbio a connotare l’identità costituzionale dell’ordinamento. Orbene, parti ricorrenti appuntavano le proprie doglianze sulla pluralità di oggetti della riforma costituzionale, senza tuttavia affermare, neppure essi stessi, l’assenza di un criterio ispiratore comune. Pare difficilmente negabile l’oggettivo alveo finalistico (di per sé indipendente dalla valutazione di merito della riforma) in cui si inseriscono le previsioni volte a ridefinire l’assetto istituzionale apicale dello Stato, il procedimento legislativo, cui risulta correlata la ridefinizione del rapporto tra Stato e Regioni (attraverso l’introduzione, da un lato della clausola di supremazia, e, dall’altro dal rafforzamento delle Regioni “dal centro” mediante la nuova composizione del Senato), gli interventi relativi agli istituti di democrazia partecipativa, la preventiva devoluzione alla Corte Costituzionale del giudizio preventivo sulle leggi elettorali. Quanto osservato trova riscontro nella circostanza che gli stessi ricorrenti in sede di interlocuzione sul tema richiamavano unicamente la previsione di soppressione del CNEL. Va da sé che l’eventuale lateralità di una sola disposizione non pare sufficiente a eradicare l’unitarietà progettuale di revisione.
La sottoposizione articolo per articolo in separato quesito referendario potrebbe, in ipotesi, portare ad una paralizzante disarticolazione del testo costituzionale riformato; d’altro canto, non può sottacersi la difficoltà di individuare e definire giuridicamente il concetto di “omogeneità” in materia costituzionale, che pare a chi scrive non scindibile in sede di valutazione dal concetto di interdipendenza costituzionale; ne deriva che, avvenuta, in ipotesi, una separazione del quesito referendario in più domande per materie “omogenee”, sussisterebbe comunque il rischio di una disarmonia costituzionale per effetto della separazione “imposta” con isolamento di ogni singola materia dal contesto istituzionale in cui deve andare per forza ad inserirsi.
D’altro lato, ciò che viene definito con termine orribile “spacchettamento” del quesito a tutela della libertà dell’elettore, comporterebbe l’attribuzione al corpo elettorale del potere di divenire fonte legislativa diretta di una modifica costituzionale con inevitabile eterogenesi dei fini, che in radice devono intendersi come razionalmente unitari, posti dal Legislatore a ciò costituzionalmente preposto.
La ravvisabilità di una volontà legislativa di revisione organica della Costituzione, da un lato, limita fortemente il peso oggettivo della lamentata pluralità delle materie di rango costituzionale trattate; dall’altro, parrebbe richiedere proprio ciò che i ricorrenti non vogliono ammettere, ossia che il cittadino elettore esprima il proprio consenso/dissenso rispetto a quello specifico complessivo progetto di riforma e, quale conseguenza derivata, alla complessiva lettura che da esso deriverebbe della nuova Carta Costituzionale.
In altri termini, non può condividersi l’equazione svolta dai ricorrenti di omogeneità/libertà d’esercizio del diritto di voto del cittadino elettore e eterogeneità/assenza di libertà di quello stesso soggetto. Posto che la Costituzione consente di sottoporre a referendum una legge costituzionale complessa ed eterogenea, deve valutarsi se sussista una lesione della “libertà giuridica” dell’elettore (che è comunque certamente libero nei fatti di esprimere il proprio voto, qualunque esso sia, sulla proposta complessiva) per effetto della mancata scomposizione del quesito sul presupposto che il cittadino potrebbe voler aderire ad alcune parti della riforma e non ad altre. È del tutto evidente che competerà ad ogni singolo elettore formulare una valutazione complessiva di tutte le ragioni a favore e di quelle contrarie di tutte le parti di cui è composta la riforma, insieme considerate, esprimendo infine un voto sulla base della prevalenza del giudizio favorevole o sfavorevole formulato in ordine a talune sue parti, ovvero secondo ogni altra personale valutazione.
Giova osservare che i promotori del referendum si sottopongono al rischio di manifestazioni di dissenso a valle di una valutazione complessiva che potrebbe essere posta a sanzione anche solo di minime parti di riforma eventualmente non gradite al singolo elettore.
In definitiva, il diritto di voto non pare leso dalla presenza di un quesito esteso e comprensivo di un’ampia varietà di contenuti, in quanto è lo stesso art. 138 Cost. a connotare l’oggetto del referendum costituzionale come unitario e non scomponibile a mente dei commi primo e secondo dell’art. 138 Cost.
Quanto alla violazione del diritto elettorale sotto il profilo di una lesione al diritto di corretta ed esaustiva comprensione del quesito referendario da parte del cittadino elettore, si osserva che la questione non pare essere posta dai ricorrenti in via di autonoma doglianza, avendo allegato la necessità di un frazionamento del quesito al principale fine di consentire una valutazione ed un voto ripartiti su ogni articolo oggetto di revisione.
Ciò nonostante, non pare inutile formulare alcune precisazioni in ordine al concetto di “chiarezza” funzionale all’esercizio del diritto di voto, avendo le parti denunciato l’illegittimità costituzionale delle norme che ne regolano la formulazione, sia pure sotto il differente profilo indicato.
La prima basilare questione non può che attenere ai modi di formulazione del quesito astrattamente prescritti dalla legge regolatrice del referendum, risolto in senso positivo in ordine alla sussistenza di esso per le ragioni escludenti la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale posta in relazione alla legge n. 352/1970.
Deve dunque valutarsi se sia prospettabile una lesione del diritto elettorale per un difetto di “chiarezza” presente nella concreta formulazione dell’odierno quesito. Va precisato che la valutazione della legittimità della domanda referendaria, ivi incluse le ipotesi di censura per un’erronea scelta compiuta dai comitati promotori tra le opzioni poste dalla legge n.352/1970, per quanto sopra affermato, risulta di esclusiva competenza dell’Ufficio Centrale per il Referendum.
L’Ufficio Centrale ha avuto modo di affermare che nel caso in esame la legge costituzionale sottoposta a referendum presenta natura “mista”, mostrando caratteri sia di “legge di revisione costituzionale” da intendersi come legge che modifica il testo di “articoli” della Costituzione, sia di “altra legge costituzionale”, da intendersi come legge che modifica un testo normativo di rango costituzionale non presente nella Carta costituzionale e, in via residuale, come legge che non modifica il testo di articoli della Costituzione, posto che, nonostante l’autodichia di “legge di revisione” adottata dal Legislatore, il testo normativo comporta anche la modifica di una disposizione della Costituzione che si risolve nella nuova denominazione del Titolo V della Parte II della Costituzione, nonché la modifica del testo di alcuni articoli di tre diverse leggi costituzionali, ragioni che hanno portato l’Ufficio Centrale per il Referendum ad adottare per la formulazione del quesito il paradigma previsto dall’art. 16 della legge n. 352/1970.
Tanto premesso, e su tali presupposti, avuto riguardo all’elettore medio, osserva il Tribunale che appare difficile individuare un diverso livello di comprensione, e quindi di consapevole manifestazione del voto, ove in luogo dell’oggetto della legge di riforma sottoposta all’approvazione (e degli estremi identificativi della stessa), venisse sottoposto all’elettore un lungo elenco di tutte le specifiche disposizioni soggette a modifica.
Neppure sotto tale residuale profilo pare dunque ravvisarsi il fumus di una più generale lesione dell’esercizio del diritto di voto referendario.
A ben vedere, la soluzione proposta dagli odierni ricorrenti, finirebbe, con tante risposte referendarie “parziali”, per traslare il referendum dal piano del controllo (politico) a quello della normazione.
In sintesi, non si ravvisa il fumus della dedotta lesione al libero e pieno esercizio del diritto di voto dell’elettore referendario chiamato ad esprimere il proprio assenso/dissenso su un unico quesito, comprensivo di ogni aspetto della riforma approvata dal Parlamento, peraltro rispondente all’ineludibile logica binaria dell’istituto referendario.
In forza di tutte le argomentazioni sviluppate -sottolineando ancora che l’elettore è chiamato ad esprimere il proprio libero voto all’interno del procedimento referendario costruito dal Costituente come meramente “eventuale”- non si ravvisa neppure la paventata violazione del diritto supremo del principio democratico della sovranità popolare, risultando conforme a Costituzione un procedimento di revisione costituzionale avviato dagli organi rappresentativi nei tempi e nei modi portati dalla Costituzione vigente, sottoposto per iniziativa di più comitati referendari alla -facoltativa- consultazione popolare, elementi che impongono di escludere la paventata lesione al massimo diritto democratico vigente.
In ultima analisi, la declinazione del procedimento di revisione costituzionale disciplinato dall’Assemblea costituente in termini unitari indipendentemente dall’ampiezza e dall’intrinseca omogeneità delle disposizioni oggetto di revisione non consente di accedere -all’esito della valutazione sommaria propria del rito cautelare, ed effettuato in tale angusto ambito il dovuto esame- alle censure allegate in ordine agli artt. 4, 12 e16 legge n. 302/1970 nella parte in cui non impongono una formulazione di più quesiti referendari per ciascuno degli articoli oggetto di modifica, con correlata previsione di più voti referendari all’interno di un singolo procedimento di revisione costituzionale.
Un breve cenno deve essere ora dedicato ai principi individuati dalla sentenza n.1/2014, al fine di valutare se la loro applicazione al presente caso consenta una differente soluzione.
E’ noto che la Corte, muovendo dalla valutazione che era in gioco un diritto individuale inviolabile e che la legge (elettorale) regolatrice definiva le regole della composizione di organi essenziali per il funzionamento di un sistema democratico, affermava che il diritto soggettivo che si assumeva essere leso (esercizio del diritto di voto) era per ciò stesso un diritto (individuale) “strettamente connesso con l’assetto democratico” del Paese.
Si veniva in tal modo a superare la tradizionale conformazione individuale del giudizio di incidentalità costituzionale che, muovendo dall’alveo di un giudizio di parti, e per ciò stesso privilegiante gli interessi individuali e soggettivi di queste, veniva ad attingere la sfera del sistema costituzionale, con specifica attenzione, in quella sede, ai meccanismi di rappresentanza politica. Le considerazioni svolte dalla Corte sulla legge deferita per vizio di legittimità costituzionale muovevano altresì’, come par di capire dalla reiterazione delle argomentazioni ed espressioni utilizzate, da una valutazione di oggettivo e grave pericolo per il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche della Repubblica. Seguendo il ragionamento svolto dalla Corte, si afferma che è consentito affrontare questioni cruciali per l’assetto democratico, anche difficilmente avvicinabili attraverso il giudizio di incidentalità, anche al fine di non consentire l’esistenza di zone franche, sottratte all’intervento della Corte.
Va precisato che il giudice costituzionale non affermava, per lo meno espressamente, l’assunzione di un ruolo di garante di ultima istanza del regolare funzionamento del circuito democratico, eventualmente prescindendo, in fatto, dal principio di incidentalità di cui all’art.1 legge costituzionale n.1/1948 e 23 legge n. 87/1953, non avendo neppure richiamato un approccio analogo a quello utilizzato in materia di conflitti tra i poteri (ove la giurisdizione si dispiega in via residuale quando vengono meno le possibilità di mediazione per via politica).
Non è questa la sede per rilevare se la pronuncia richiamata integri uno stare decisis, applicabile de plano ad ogni vizio normativo correlato all’esercizio del diritto di voto, anche referendario; quel che si può trarre dall’insegnamento offerto è che, come ben esplicitato dalla Corte anche in occasione della richiamata sentenza, occorre pur sempre che il giudice remittente, effettuato il dovuto esame, ravvisi un motivato dubbio di costituzionalità della norma, integrato dalla potenziale violazione di uno o più parametri costituzionali oppure da una oggettiva incertezza nella sua applicazione.
Applicati i principi posti nella sentenza n.1/2014, ed in particolare il mantenimento dei requisiti della incidentalità e della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, non può neppure sostenersi un accesso alla Corte da parte del giudice ordinario -in assenza di normati automatismi valutativi – per il solo fatto della rilevanza costituzionale e della estrema delicatezza delle questioni trattate, neppure per il caso in cui si attinga alla sfera del regolare funzionamento del sistema democratico.
Orbene, pare a chi scrive (in altre occasioni giudice remittente in casi di costituzionalità infine accolti) che le argomentazioni svolte nei capi che precedono non consentano di ravvisare siffatto vulnus, neppure alla più severa delle analisi, dovendosi ricondurre le caratteristiche referendarie denunciate proprio alla struttura della norma costituzionale invocata (art. 138 Cost.), cui la legge referendaria aderisce, per ciò stesso non passibile di censura alcuna. Riscontro è dato dal fatto che gli stessi ricorrenti, al fine di sostenere un ambito di operatività della disposizione costituzionale diverso dal dato testuale (e dall’interpretazione sistematica) dell’art. 138, non potevano che appellarsi a singole posizioni espresse in seno all’Assemblea Costituente, prescindendo dal precipitato normativo dei lavori, ed a non meglio puntualizzati orientamenti dottrinari.
Anche sotto tale residuo profilo non vi rinvengono ragioni per accedere alle richieste cautelari enunciate.
Dipanando il procedere argomentativo in un’ultima doverosa sintesi, possono riassumersi le ragioni delle determinazioni assunte nei seguenti termini:
-difetto di strumentalità della misura cautelare richiesta;
-rispondenza della formulazione del quesito referendario in un’unica domanda formulata ai sensi della legge n. 352/1970, ancorché avente ad oggetto più articoli della Costituzione e più oggetti, alle previsioni di cui all’art. 138 Cost.;
-la pedissequa applicazione della procedura disciplinata all’art.138 Cost. non consente di sollevare dubbi di legittimità costituzionale delle norme evocate in relazione agli artt. 1 e 48 Cost.
Sulla base delle argomentazioni svolte non ritiene dunque il giudicante di ravvisare dubbi di legittimità costituzionale – plausibili e consistenti – delle disposizioni referendarie in oggetto.
In sintesi conclusiva, a seguito di un primo prognostico accertamento delibativo del fumus, non si ritengono condivisibili la tesi proposte a supporto della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale posta in relazione agli artt. 4, 12, 16 L. n. 352/1970 per contrasto con gli artt. 1, 48, 138 Cost.
Risulta assorbita ogni ulteriore questione dedotta in atti.
A quanto sin qui osservato consegue il rigetto della domanda cautelare (avente ad oggetto la rimessione della questione di legittimità costituzionale alla Corte) per le ragioni di rito e di merito esaminate.
Spese compensate ex art. 92 c.p.c.
P.Q.M.
letti gli artt. 669-bis ss. e 700 c.p.c.
1) dichiara il difetto di legittimazione passiva della Presidenza della Repubblica;
2) rigetta il ricorso indicato in premessa;
3) spese di lite compensate.
Si comunichi.
Milano, 6.11.2016 Il Giudice Firmato Da: DORIGO LORETA M.G. Emesso Da: POSTECOM CA3 Serial#: deaf5