di Maria Rosa Vicario
È dello scorso 20 ottobre la sentenza del TAR Lazio che ha dichiarato inammissibile, per difetto assoluto di giurisdizione, il ricorso presentato dal M5s e Sinistra Italiana avverso la formulazione del quesito da sottoporre a referendum il prossimo 4 dicembre.
Ricorso che ha fatto da apri pista ad altri giudizi, da più parti instaurati – sia dinanzi al medesimo tribunale, sia dinanzi al giudice civile ordinario – avverso il medesimo oggetto. È attesa in questi giorni la sentenza del Tribunale ordinario di Milano, investito dal Presidente emerito della Corte costituzionale, Valerio Onida. Nell’ambito del processo che qui si commenta, i ricorrenti chiedevano l’annullamento del decreto del Presidente della Repubblica con cui il referendum è stato indetto; decreto che – lo si sottolinea sin da subito, perché ciò è alla base della decisione del giudice amministrativo – ha recepito pedissequamente la formulazione del quesito referendario, così come individuato dall’Ufficio Centrale per il Referendum costituito presso la Corte di Cassazione.
Le eccezioni sollevate si incentravano sostanzialmente sulla violazione degli artt. 138 e 87 della Costituzione, in combinato disposto con l’art. 16 della legge n. 352 del 1970 – legge, quest’ultima, che detta la disciplina sui referendum previsti dal testo costituzionale. In particolare, lamentavano come la scelta di non indicare nel quesito i singoli articoli della Costituzione oggetto di consultazione referendaria, da una parte, e di identificare il quesito medesimo con la intitolazione del disegno di legge di riforma, dall’altra, fosse “fuorviante” e, comunque, non idonea “ad assicurare una corretta funzione informativa e di orientamento degli elettori”.
Con la decisione assunta, il Tribunale amministrativo del Lazio non indaga il merito della questione. Il giudice si ferma ancora prima, dichiarando di non avere giurisdizione alcuna in riferimento all’attività svolta dall’Ufficio Centrale per il Referendum, vero artefice dell’individuazione della formulazione del quesito.
Pochi, ma chiari, i passaggi logici della sentenza. Oggetto di impugnazione – come si diceva – è il d.P.R. col quale è stato indetto il referendum costituzionale.In termini generali, la sindacabilità di un decreto presidenziale da parte del giudice amministrativo dipende squisitamente dalla funzione che con esso il Presidente della Repubblica intende esercitare. In ragione, cioè, della poliedricità delle funzioni che il Presidente della Repubblica è chiamato svolgere, “è da escludere l’insindacabilità in termini assoluti degli atti e dei provvedimenti adottati da tale organo, essendo conseguentemente necessario procedere ad una valutazione – sempre e in ogni caso – della natura del potere in concreto esercitato alla stregua delle specifiche attribuzioni riconosciute dall’ordinamento”.
Nel caso di indizione di un referendum costituzionale, l’atto presidenziale, pur essendo adottato da un organo politico, nell’esercizio di un potere politico, è l’atto finale di un procedimento volto ad “applicare” i criteri individuati dal legislatore, mediante la legge n. 352 del 1970, per salvaguardare la libertà delle scelte degli elettori.La sua adozione è, pertanto, scandita da precisi canoni di legalità, la cui osservanza determina la legittimità e validità dell’atto stesso. Ed è, allora, in questi termini – verificare il rispetto dei vincoli legislativi “segnatamente con riferimento ai profili lesivi della libertà e della segretezza delle scelte degli elettori” – che è ammesso un sindacato giurisdizionale.
Sennonché, l’eccezione sollevata dai ricorrenti si riferiva, in via indiretta, all’attività svolta dall’Ufficio Centrale per il Referendum. È a quest’ultimo organo, infatti, che deve imputarsi il quesito referendario di cui si discute ed è, pertanto, nei suo confronti che il giudice dovrebbe – almeno astrattamente – esercitare la sua giurisdizione.Tuttavia – e qui sta il punto –, l’attività svolta dall’Ufficio Centrale per il Referendum è insindacabile, perché si tratta di attività svolta da un organo “neutrale”. L’Ufficio Centrale per il Referendum è composto dai tre presidenti di sezione della Cassazione più anziani, nonché dai tre consiglieri più anziani di ciascuna sezione. Esso verifica la conformità delle richieste di referendum alle norme dell’art. 138 della Costituzione, esercitando un potere di controllo sulla legittimità delle richieste e, più in generale, sul rispetto delle prescrizioni previste dal legislatore per il referendum.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale cui aderisce il Tar del Lazio, la terzietà ed indipendenza dell’organo – dovute e alla sua composizione, e alla funzione che è chiamato a svolgere – impediscono di ricondurlo nell’alveo del potere amministrativo, e, quindi, di qualificare gli atti dallo stesso adottati in termini di “atti amministrativi”, con ciò escludendo qualunque sindacato di legittimità ad opera del giudice amministrativo. L’Ufficio, infatti, non agirebbe né per dare attuazione all’indirizzo politico generale, né per la soddisfazione di interessi suoi propri; piuttosto esercita una funzione di “obiettiva applicazione” dei criteri adottati dal legislatore in merito alle vicende referendarie. Funzione, quest’ultima, che pacificamente contraddistingue il potere “giurisdizionale”. Ed infatti, la Corte costituzionale – ma anche la dottrina maggioritaria – attribuisce all’Ufficio Centrale per il Referendum natura di organo “giurisdizionale”.
In particolare, nelle rare occasioni in cui si è pronunciata e sempre in riferimento a funzioni dall’Ufficio esercitate nell’ambito dei referendum abrogativi, la Corte ha statuito che entro la sfera delle proprie attribuzioni, l’Ufficio centrale è investito di un potere decisorio le cui modalità di esercizio non spetta ad essa sindacare. La Corte costituzionale può, al più, limitarsi a verificare la sussistenza dei presupposti – procedurali e formali – richiesti per l’esercizio del potere, rimanendogli precluso di censurare il modo come l’Ufficio Centrale esercita nel merito il potere decisorio ad esso attribuito, in via definitiva ed esclusiva.
Potrebbe, volendo, parlarsi di una vera e propria competenza esclusiva per materia, dalla quale, allora, ne discenderebbe l’impossibilità per qualunque giudice (e non soltanto amministravo) di sindacare gli atti dall’Ufficio adottati.
Maria Rosa Vicario